Più di quattromila morti sospette in oltre trent’anni e tante persone con livelli altissimi di PFAS nel sangue. È questa la situazione che si presenta in Veneto secondo studi recenti, in provincia di Vicenza a poche settimane dall’ultimo capitolo del processo che vede due aziende della zona imputate di disastro ambientale e avvelenamento doloso delle acque.
Da oltre 10 anni in tribunale
Una vicenda che si trascina nelle aule dei tribunali da oltre dieci anni e che richiama nelle premesse la storia narrata nel film degli anni ‘90 vincitore di quattro oscar “Erin Brockovich- forte come la verità”. Interpretato da Julia Roberts. Una storia vera di giustizia che molti in quelle valli sperano di rileggere nell’epilogo del processo veneto. Chi è profondamente convinto di questa tesi è l’avvocato Edoardo Bortolotto che nel processo in Corte d’assise rappresenta 60 lavoratori della società Miteni di Vicenza, ora fallita, il WWF, Medicina Democratica, Italia Nostra e altre associazioni ambientaliste.
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Avvocato, a poche settimane dalla sentenza, vede le condizioni per ipotizzare una
conclusione come quella raccontata nel film Erin Brockovich – forte come la verità?
«I capi di imputazione sono quattro: avvelenamento doloso delle acque; disastro ambientale; inquinamento ambientale ai sensi delle nuove nome dette Ecoreati e bancarotta fraudolenta. Se verrà dimostrato che diversi lavoratori e alcuni familiari sono morti perché esposti ad acqua contaminata da PFAS per lunghi periodi, potrebbe scriversi una nuova pagina di giustizia».
Cosa sono i PFAS?
«PFAS è l’acronimo di prfluorinated alkylated substances, ovvero sostanze perfluoroalchiliche. Scoperte negli anni ’40 nell’ambito del progetto Manhattan, sono state utilizzate per prime negli anni ’60 dagli americani per realizzare le tute mimetiche dei soldati impegnati nella guerra del Vietnam. Successivamente sono state utilizzate per la produzione di capi di abbigliamento e, dopo aver scoperto anche la proprietà antiaderente, è stato brevettato il teflon».
Perché sono così utilizzati se mettono a rischio la nostra salute?
«Grazie alla loro resistenza sono idrorepellenti e oleorepellenti, pertanto, hanno trovato largo utilizzo nella produzione di pentole, di detergenti, lucidanti per pavimenti e vernici. Altri in rivestimenti, articoli medicali e protesi mediche, carta per imballaggi, componenti meccanici nel settore aeronautico e automobilistico. Un ampio utilizzo che richiede altresì una particolare attenzione per lo smaltimento, cosa che invece non sempre è stato fatto in modo corretto».
Come si è capito che i PFAS potevano essere pericolosi per la salute dell’uomo?
«Le due società che per prime hanno utilizzato su larga scala i PFAS negli Stati Uniti, ovvero 3M e Dupont, sul finire degli anni ’60 e inizio anni ’70 hanno ravvisato dei problemi di salute nelle lavoratrici delle catene di montaggio. In particolare, le donne incinte davano alla luce bambini con gravi problemi agli occhi o malformazioni. Dopo attenti studi, a metà degli anni ’80, queste aziende hanno deciso perciò di togliere le donne dalla catena di montaggio, ma non di segnalare i problemi di salute riscontrati».
Dalle analisi fatte cosa è emerso e quali dati sono stati tenuti nascosti?
«Negli anni ’80 e ’90 i problemi di salute all’interno della aziende si moltiplicarono e, come accadde per l’amianto, l’utilizzo globale delle sostanze ha fatto sì che i problemi si trasferirono alla popolazione globale e all’ambiente. Il primo dato venuto alla luce è la bio resistenza. Ovvero una volta che il prodotto si disperde nell’ambiente diventa indistruttibile e questa persistenza si avverte anche nel corpo umano, perciò, quando l’uomo viene a contatto con i PFAS impiega tanto tempo per eliminarli: almeno cinque anni per dimezzare la quantità acquisita. Se però l’esposizione continua, si genera un moltiplicatore e per tutta la vita queste sostanze rimangono presenti nel corpo umano con gravi danni per la salute e l’ambiente».
Quali problemi di salute possono generare nell’uomo i PFAS?
«Nel 2009 al termine di attenti studi viene certificato che almeno cinque malattie sono con alta probabilità (dal 90 al 95%) riconducibili all’esposizione da PFAS assunta attraverso l’acqua potabile.
- ipercolesterolemia,
- ipertensione in gravidanza e pre-eclampsia,
- malattie della tiroide e alterazioni degli ormoni tiroidei,
- colite ulcerosa,
- tumore del rene e tumore del testicolo.
Cosa accadde in America in conseguenza dei PFAS?
«Non avendo segnalato alle autorità competenti i danni di salute causati da queste sostanze, non è stata prestata la dovuta cura nello smaltimento delle stesse che hanno così contaminato le falde acquifere di vasti territori, con gravi conseguenze per l’ambiente e la salute pubblica. Quando in America arrivarono i primi risultati, 3M e Dupont patteggiarono un risarcimento di 450 milioni di dollari per i lavoratori coinvolti, si impegnarono a fornire acqua libera da PFAS pagando la bonifica e facendosi carico di tutto lo studio randomico ed epidemiologico sulla popolazione».
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Quanto accaduto in America non sembra aver insegnato nulla, tanto è vero che il problema si presenta a distanza di anni in Italia…
«In Veneto negli anni ’60 nasce a Trissino, in provincia di Vicenza, Rimar, uno spin off del gruppo Marzotto di Valdagno. Il grande gruppo tessile si concentra sull’utilizzo di PFAS nei vestiti per l’effetto antimacchia, anti-repellente. Alla fine degli anni ‘70 si verifica però un primo incidente causato dai Benzo trifloruri che l’azienda utilizza in ambito agronomico. I BTF contaminano la falda e arrivano all’acquedotto di Trissino. Essendo colorati sono visibili ed infatti dai rubinetti esce acqua gialla. Viene fatta la bonifica e il problema rientra, ma prosegue nel frattempo la produzione su larga scala di PFAS, che essendo inodore e incolore non sono percettibili e possono essere scaricati nell’ambiente senza destare preoccupazione».
Quando iniziano i primi segnali di allerta?
«Come detto negli Stati Uniti è dai primi anni 2000 che si comincia a comprendere la gravità del problema con i primi interventi dell’EPA, l’agenzia di protezione ambientale, sebbene le società produttrici avessero già da anni informazioni gravi. La Regione Veneto pone dei primi limiti già nel 2014, poco dopo la scoperta dell’inquinamento. Mentre solo nel 2020 l’Unione Europea invita gli stati membri a monitorare i PFAS e fissa con la direttiva 2184 il limite a 0,10 μg/l per litro per 20 PFAS e 0,50 μg/l per tutti gli altri PFAS in commercio (oltre 10 mila). Le analisi effettuate in Veneto sugli abitanti della zona rossa (provincia di Vicenza) rivelano invece una presenza di PFAS che è arrivata anche a cento mila nanogrammi per litro».
Come si arriva a capire che anche l’acqua potabile è contaminata da PFAS?
«L’ISPRA viene incaricata di svolgere un primo studio sull’acqua dei fiumi, ma fanno di più e
analizzano l’acqua potabile delle fontanelle dei cimiteri. Quindi vanno nei paesi più sperduti della provincia di Vicenza e scoprono che quelle acque avevano altissimi livelli di PFAS. A quel punto viene fatta la prima segnalazione al Ministero dell’ambiente e al Ministero della salute oltre che alla Regione Veneto. Vicenza risulta essere la zona più contaminata e in particolare Lonigo, dove ha sede la falda acquifera che rifornisce gli acquedotti di tre province ed è la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Lì inizia uno studio a ritroso. Partendo dallo scarico industriale che proviene dal distretto della concia di Arzignano e si scopre che il grosso dell’inquinamento proviene dal depuratore di Trissino».
La presenza del depuratore non garantisce la purezza dell’acqua potabile?
«Il primo dato significativo è che il depuratore non ferma i PFAS, come entrano, escono perché questi impianti non sono in grado trattare queste sostanze. Il secondo dato è che a Trissino scarica la Miteni. L’azienda si autodenuncia, vengono fatte le analisi sulla popolazione, messi filtri aggiuntivi al depuratore con la convinzione di aver risolto il problema. In realtà nel 2017 altre analisi rivelano che ad essere contaminati sono soprattutto i giovani, anche bambini di due o tre anni, non ancora nati nel 2013, anno della scoperta dell’inquinamento della falda acquifera».
Questo cosa significa?
«La scoperta più sconvolgente è che la contaminazione nell’uomo risulta molto alta. Tale per cui una donna quando è incinta trasferisce attraverso la placenta l’inquinamento al feto che trattiene i PFAS, mentre la madre se ne libera».
Esistono dei farmaci per porvi rimedio?
«Ad oggi non c’è certezza in merito. Si è parlato di plasmaferesi, ovvero un lavaggio del sangue, ma non ci sono riscontri al riguardo. Quindi al momento finché l’acqua è contaminata le previsioni non sono positive».
Le istituzioni cosa hanno fatto?
«La Regione Veneto si è presa l’impegno di fare lo studio epidemiologico per capire le
conseguenze dei PFAS sulle persone. Ancora non ci sono i risultati. Il timore è di trovarsi di fronte ad una situazione di difficile gestione. I costi di filtraggio sono elevati e la sostanza filtrata rimane nei carboni attivi. Questi dovranno poi essere smaltiti, non in discarica però, ma bruciati ad almeno 1500 gradi».