
Nel panorama della salute pubblica, una rivoluzione silenziosa è in atto: i tumori professionali, per troppo tempo relegati ai margini del dibattito medico e politico, stanno finalmente emergendo con forza grazie a nuovi strumenti di consapevolezza e una sentenza giudiziaria destinata a fare scuola. A parlarne è la dottoressa Carolina Mensi, biologa e epidemiologa presso la Medicina del Lavoro Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, da anni in prima linea su questo fronte.
Un rischio invisibile, ma reale
«Il lavoro è ancora oggi un fattore di rischio sottovalutato», spiega Mensi. «Molti tumori vengono attribuiti solo a fattori genetici, al fumo o alla dieta, mentre le esposizioni professionali rimangono nell’ombra». Eppure, si stima che circa il 4% delle nuove diagnosi di tumore in Italia – pari a migliaia di casi ogni anno – sia legato all’ambiente di lavoro. La mancata raccolta della storia lavorativa del paziente durante la diagnosi rende queste connessioni invisibili, con gravi ricadute in termini di prevenzione e accesso ai diritti.
Un diritto esiste, ma non si esercita
La sorveglianza epidemiologica dei tumori professionali, è prevista per legge dal 2008 e
consiste nell’individuare fra tutti i tumori quelli causati anche dal lavoro. E’ coordinata dai registri nazionali collocati presso la sede dell’INAIL, che, a loro volta, si rifanno a registri regionali. Non solo, dal 2017 il riconoscimento della malattia professionale è previsto nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), con possibilità per il paziente di ottenere una rendita dall’INAIL a seguito di certificazione medica. In caso di decesso, tale diritto passa al coniuge. Tuttavia, denuncia Mensi, «pochi lo sanno e ancora meno riescono ad accedere a questa tutela per mancanza di informazioni e formazione».
La svolta di Vicenza
La recente sentenza di Vicenza, che ha riconosciuto lo scorso 13 maggio per la prima volta in Italia il nesso causale tra l’esposizione professionale ai PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) e la morte di un lavoratore, rappresenta una pietra miliare. Dimostra che, nonostante il tempo trascorso dall’esposizione, la giustizia può ancora intervenire a favore delle vittime. «I tumori che osserviamo oggi sono spesso il risultato di esposizioni avvenute decenni fa. Per questo serve agire subito: rafforzare la sorveglianza, formare i medici e informare i cittadini», ribadisce Mensi.
Il progetto con FAVO: formazione per medici e pazienti
Per colmare il vuoto informativo, Mensi ha curato un capitolo nel Rapporto FAVO 2025 dedicato proprio ai tumori professionali. Un’iniziativa concreta che include due box operativi con indicazioni chiare per avviare le pratiche di riconoscimento e far valere i propri diritti. L’obiettivo è doppio: sensibilizzare chi cura e responsabilizzare chi è curato.
Una medicina davvero personalizzata guarda anche al lavoro
«Nel tempo della medicina di precisione – sottolinea Mensi -, non è più accettabile trascurare il passato lavorativo di un paziente. Capire da dove viene una malattia non è solo una questione di diagnosi: è anche un atto di giustizia». La legge del 2008 obbliga le Regioni a istituire registri specifici per i tumori professionali, ma molte non lo hanno ancora fatto, generando un preoccupante squilibrio territoriale. Oggi abbiamo la conoscenza e gli strumenti per cambiare rotta. Il riconoscimento dei tumori professionali non è solo una questione sanitaria, ma un dovere etico e sociale. Come afferma Mensi: «Non possiamo più permetterci di ignorare ciò che il lavoro svolto a contatto con sostanze cancerogene come amianto, legno, cuoio, metalli e molto altro, può provocare nelle persone a distanza di tanti anni».