La dipendenza dallo smartphone e dai social media è diventata una problematica crescente nella società moderna. Nota come nomofobia, ovvero paura di rimanere sconnessi senza il proprio telefono, si manifesta in particolare nei più giovani e può avere effetti negativi sulla salute mentale e fisica. Tra questi, la perdita della privacy, il cyberbullismo, la dipendenza digitale e l’esposizione a contenuti inappropriati. L’abuso dello smartphone può inoltre incidere negativamente sulla qualità del sonno, favorendo l’isolamento e limitando le interazioni reali con familiari e amici.
Quando il pericolo per i giovani arriva dai social media
Un utilizzo eccessivo dello smartphone per i più giovani coincide spesso con una sovraesposizione ai social media. Un fenomeno che può contribuire a generare problemi di autostima, ansie legate all’apparenza o alla ricerca di approvazione virtuale. Per questo motivo in Australia è stato vietato l’uso dei social media ai ragazzi inferiori di 16 anni. Una decisione giusta? L’abbiamo chiesto al Professor Gianluca Castelnuovo, direttore del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia dell’IRCCS Auxologico e professore di psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano.
Professore anche in Italia abbiamo questa emergenza tra i giovani?
«La decisione presa in Australia è apprezzabile. Bene che qualche Nazione abbia osato, anche se devo dire che l’Italia in questo senso non è sprovveduta. Tante regioni italiane hanno creato delle linee guida. In Lombardia ci sono i patti digitali, ideati dal Professor Alberto Pellai, medico e ricercatore dell’Università Statale di Milano. Un tentativo per far fronte all’emergenza e correre ai ripari».
Quali rischi corre la generazione Z a causa di un abuso di smartphone e social media?
«Il problema deve essere affrontato su due piani. Il primo riguarda l’accesso alla tecnologia e poi ai social media. La tecnologia, di per sé, è una opportunità per l’umanità. Se durante il Covid non avessimo avuto la possibilità di usare le piattaforme digitali come Zoom o Meet saremmo stati isolati. Non avremmo potuto fare la didattica a distanza. Un conto però è un utilizzo estemporaneo, diverso un abuso. Lo strumento telefonico può servire per la sicurezza, per comunicare, ma se diventa sostitutivo di una crescita, allora può essere un problema per l’intelligenza dei nostri ragazzi»
In che senso?
«Abbiamo visto che il QI, quoziente intellettivo, dei nostri ragazzi è diminuito negli anni. L’intelligenza sta peggiorando. Infatti, se togliamo il telefono e confrontiamo l’abilità di un ragazzo di oggi con un giovane di venti anni fa è possibile notare che le capacità sono diminuite perché c’è un esercizio eccessivo del device. Praticamente abbiamo subappaltato alla tecnologia una serie di funzioni del nostro cervello. Non allenandole più, le abbiamo perse».
Mi faccia un esempio…
«La capacità di scrittura e di lettura è diminuita. Oggi si scrive poco e questo determina un mancato sviluppo di alcune aree del nostro cervello. Il problema non è tanto legato alle capacità cognitive, ma a quelle relazionali e qui entriamo nella spirale dei social media che condizionano l’intelligenza sociale ed emotiva dei nostri ragazzi. Viene meno la capacità di stare con gli altri, relazionarsi, discutere, interagire con altre persone».
Quali sono le conseguenze di questa mancanza di relazioni sociali nei giovani?
«Se un giovane vive l’interazione tramite una piattaforma, ad esempio Facebook, Tiktok o Instagram, delega ad un mezzo virtuale una funzione che dovrebbe essere propria. Questo può incentivare i giovani a creare una falsificazione del proprio io con una immagine artefatta. L’immagine corporea viene modificata, si fanno vedere solo alcune foto, si mettono dei filtri. È una strategia usata più dalle ragazze per le quali l’immagine è un biglietto da visita. Nei ragazzi è meno diffusa, ma esiste comunque un problema di vigoressia, ovvero la volontà di rappresentarsi muscolosi e performanti e di creare un autoinganno. Queste piattaforme rischiano di costruire scenari virtuali in persone che invece dovrebbero basarsi su interazioni vere perché stanno costruendo una loro capacità relazionale».
Le nuove tecnologie avanzano, fermare il tempo è impossibile esiste una ricetta per un giusto compromesso?
«Usare la tecnologia non è il problema. Anzi il mondo digitale avanza, ma non deve essere il mezzo per ingannare sé stessi e gli altri. Per questo occorre creare una protezione ai più giovani al fine di renderli consapevoli delle potenzialità, ma anche dei pericoli che si nascondono dietro uno schermo. Il limite dei sedici anni messo in Australia è un segnale importante. Una volta adulto, un individuo dovrebbe essere capace di capire e interagire. Occorre però vigilare sull’identità per evitare che i ragazzi riescano comunque ad accedere alla piattaforma sotto falso nome».
Quali strategie adottare?
«Qualche esperimento positivo è stato fatto. A questo proposito ricordo la App Be Real (essere reali). L’idea era di invitare un amico a pubblicare uno scatto in un momento della giornata, senza filtri. La App però non ha avuto molto seguito».
Il ruolo della scuola quale dovrebbe essere per aiutare i giovani?
«La scuola è un bell’ambiente dove creare relazioni, purtroppo i danni del lockdown si sentono ancora oggi e non mi riferisco tanto alla didattica, che abbiamo fatto a distanza, quanto piuttosto all’aspetto comunicativo ed emotivo che serve per gestire le relazioni con gli altri, che è venuto meno. La scuola deve avere il coraggio di far dialogare i giovani senza l’uso dello smartphone. I professori devono interagire di più con loro».
.Basterebbe questo per correggere il tiro oppure occorre agire sulla generazione Z ormai dipendente?
«Le regole da adottare sono poche ma fondamentali:
- Sui social deve essere attivato il Parent Control, in particolare per non diffondere fake news, limitando l’uso dei social fino ad una certa età. I sedici anni, come ha scelto di fare l’Australia, mi sembra un buon compromesso.
- È fondamentale avere un maggiore controllo da parte dei genitori e della scuola.
- Si dovrebbero sottoscrivere in ogni Regione i patti digitali, ovvero regole chiare da condividere tra scuola, famiglia, istituzioni, associazioni sportive, oratori. Tutti gli attori dell’educazione dei ragazzi chiamati ad interagire insieme».
In questo scenario quale può essere, o meglio deve essere, il ruolo dello psicologo?
«Come ho esplicitato nel mio intervento in Senato la settimana scorsa in qualità di consulente della commissione infanzia, ritengo che debba essere potenziata la figura dello psicologo scolastico. Deve essere una presenza costante, in modo da intercettare i problemi dei ragazzi sul nascere e lavorare sulla prevenzione».