lunedì, Gennaio 13, 2025
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Sanità: Longo (Bocconi) «I conti non tornano: sì a tagli e imposta di scopo»

Francesco Longo professore di Health care management dell’Università Bocconi di Milano spiega perché sono necessarie scelte dolorose per il Servizio Sanitario Nazionale. «Garantire tutto a tutti? impossibile»

Francesco Longo, professore associato Healthcare Management Università Bocconi Milano

Dal prossimo 1° gennaio entreranno in vigore nuovi livelli essenziali di assistenza  (LEA) a carico del Servizio Sanitario Nazionale: dai controlli sulla celiachia, alla procreazione assistita,  fino alle ultime terapie antitumore. Dopo 28 anni, dunque i tariffari di specialistica saranno aggiornati, ma i tassi di copertura della Sanità Pubblica non sono soddisfacenti, mentre i conti sono in pareggio.  A lanciare l’allarme è Francesco Longo, Professore associato di Health care management dell’Università Bocconi di Milano.

Professore, i risultati della Sanità in Italia non tornano, medici e infermieri vanno via, liste d’attese  lunghe e troppi italiani rinunciano alle cure, perché?

«Mi lasci dire che alcune sono leggende metropolitane. Qualche medico sceglie di andare all’estero, ma non si tratta di un movimento di massa, piuttosto sono altre le considerazioni da fare: prima di tutto che l’Italia è il terzo paese più vecchio del mondo dopo Giappone e Principato di Monaco. Questo significa in termini numerici che il 24% della popolazione è anziana, ovvero una persona su quattro. Il secondo dato che ci deve fare riflettere è che a fronte di 14 milioni di pensionati ci sono 7 milioni di bambini. Quindi i vecchi sono due volte i bambini e questo genera un problema gigantesco immediato e di prospettiva».

In che misura?

«Considerando che abbiamo la speranza di vita tra le più alte al mondo, pari a 84 anni, si crea inevitabilmente un corto circuito. Infatti, se trent’anni fa  si andava in pensione dopo 40 anni di lavoro, intorno a 60 anni, e si moriva verso i 70, i pensionati percepivano una pensione per 10 anni dopo aver lavorato per quarant’anni. Oggi, secondo la media Inps, si va in pensione a 64 anni con una prospettiva di vita media di 84 anni. Questo cosa significa? Che gli italiani lavorano 40 anni per poi stare in pensione 20 anni.  Se negli anni 60 il rapporto tra  anni lavorati e anni trascorsi in pensione era di 4 a 1 oggi è di 2 a 1. Questo è economicamente impossibile da sostenere.  In particolare, in un paese dove i bambini che nascono sono esattamente la metà degli anziani.  Quindi non è possibile due volte».

La matematica non sbaglia dunque occorre cambiare qualcosa nella Sanità…

«Siamo difronte ad  un paradosso: il successo del Servizio Sanitario Nazionale in termini di incremento della speranza di vita ha fatto sì che oggi la spesa previdenziale crei un cortocircuito nella spesa sanitaria».

In numeri questo come si traduce?

«Oggi abbiamo 1,6  lavoratori per pensionato e il 27 percento del costo del lavoro è destinato alla previdenza. Il livello medio delle pensioni che potremo permetterci si calcola su: salario medio percepito x27% per 1,6 ( che è il rapporto tra lavoratori e pensionati). Questo corrisponde al 43% del salario medio. Quindi noi potremo permetterci delle pensioni pari solo al 43% del salario medio. Considerando che il salario medio è di 1500 euro, la pensione a cui potremmo ambire sarebbe di 645 euro, se non intervenisse lo Stato».

In che modo?

«Ogni anno il governo dà all’Inps 135 miliardi di euro, oltre ai contributi dei lavoratori. Questo dato è destinato ad aggravarsi nei prossimi 5 anni dal momento che, a causa dell’invecchiamento della popolazione le pensioni cresceranno di 50 miliardi nel periodo 2023-2027, mentre nella sanità si discute di uno o due miliardi l’anno di incremento. La conseguenza è che noi siamo il terzo paese al mondo più anziano, ma con un Pil destinato alla Sanità basso, pari al 6,3%, destinato pure a scendere. Il prossimo anno sarà del 6,2%, nel 2026 del 6% e nel 2027 sarà meno del 6%. Chi spende meno in Europa oggi è l’Inghilterra che destina il 9% del Pil alla Sanità. I francesi e i tedeschi destinano l’11,5% del Pil alla Sanità, ovvero quasi il doppio di noi».

Quindi noi cosa dobbiamo fare per migliorare la Sanità e ridurre le liste d’attesa?

«Per prima cosa occorre porre la questione nel modo giusto. Ovvero, bisogna dire che siamo il terzo paese più vecchio al mondo e  gli anziani sono  il doppio dei bambini».

Quali correttivi dobbiamo adottare?

«Noi viviamo nella retorica di essere universalistici e dunque di dover garantire tutto a tutti, ma è impossibile e dobbiamo mettiamoci d’accordo su cosa garantire e cosa no».

Siccome non lo facciamo, cosa succede?

«Le conseguenze sono due. La prima è che il Servizio Sanitario Nazionale produce tra il 35 e il 50 percento di ricette  in più di quanto è possibile realizzare. Su 100 impegnative fatte dai medici di medicina generale o dagli specialisti, il Servizio Sanitario Nazionale  è in grado di produrne 50 o al massimo 70 e questo genera liste d’attesa interminabili. La seconda invece è che questo sistema continua a deludere i cittadini. Non si riesce a mantenere quando viene promesso attraverso le prescrizioni e questo implica un impoverimento della fiducia e del capitale istituzionale del Servizio Sanitario Nazionale».

Chi con la ricetta in mano arriva dunque ad ottenere la prestazione?

«Ovviamente chi è socialmente più forte: chi è colto e ha più reti sociali riesce ad avere la prestazione e questo in realtà aumenta l’iniquità. I soggetti più forti arrivano alla prestazione gratuita del SSN e i più deboli no».

Qual è la percentuale di soddisfazione calcolata sugli italiani?

«Il dato ISTAT sulle malattie croniche dice che il paziente che ha completato solo le scuole dell’obbligo ha una probabilità del 30% di essere in buona salute, mentre chi, con la stessa malattia, ha la laurea, arriva ad avere la probabilità di essere in buona salute pari al 65%, più del doppio. Questo perché la persona colta va regolarmente dal medico, prende i farmaci, e ottiene le prestazioni anche a pagamento.  La persona meno colta non fa accertamenti diagnostici, non fa visite e accertamenti diagnostici e non prende farmaci con regolarità in assenza di logiche di sostegno all’aderenza da parte del SSN».

Quali sono le soluzioni ipotizzabili per migliorare la situazione dal suo punto di vista?

«Le soluzioni possibili sono quattro:

  1. Ridurre le aspettative ed esplicitare il perimetro dei diritti eleggibili. Ad esempio, occorre dire al paziente iperteso che non è possibile garantirgli tre visite all’anno dal cardiologo, ma solo due sicure. Altre prestazioni non devono più essere gratuite, come il ginecologo nella donna sana. O ancora nelle case di riposo, che costano 30 mila euro l’anno, se possono andarci solo i ricchi allora è iniquo dar loro il contributo pubblico, mentre la classe medio bassa si paga i servizi a casa.   
  2. Abbassare gli standard assistenziali. Per legge in Italia quando si fa una lastra, oltre al tecnico, deve esserci un radiologo destinato ad intervenire in caso di malore del paziente.  Fermo restando che difficilmente un paziente si sente male mentre fa una lastra, nel caso succedesse servirebbe un internista piuttosto che un radiologo. Anche  in sala operatoria ci sono margini di miglioramento. Oggi devono esserci  quattro professionisti, ma grazie allo sviluppo tecnologico sarebbe possibile ridefinire gli standard professionali necessari.  Sono gli stessi clinici a dirlo.
  3. Possiamo fare efficientamento e tagli ma solo dolorosi. Ospedali con meno di 50 posti letto devono essere chiusi, così come i punti nascita privi di casistica minima.
  4. Introdurre l’ imposta di scopo, ovvero destinare a partire dai 30 anni una quota annua ad un fondo per garantirsi l’assistenza in vecchiaia quando non si è più autosufficienti. In Italia oggi ci sono 4 milioni di anziani non autosufficienti. Ciascuno di loro ha almeno due caregiver. Quindi la gestione di questi pazienti riguarda 12 milioni di persone. Diventare non autosufficiente è un rischio certo perché sicuramente una persona muore dopo 3 o 4 anni di non autosufficienza. Noi oggi non siamo attrezzati, mentre invece dovremmo esserlo. Una mutua collettiva permetterebbe ad ognuno di prendere coscienza del fatto che un giorno sarà non autosufficiente e grazie al fondo potrà curarsi. In questo modo è possibile far nascere  una industria che in altri paesi come la Germania è presente da vent’anni».

Un obiettivo difficile … chi si prende la responsabilità di intervenire?

«Noi dobbiamo accettare il fatto che tutte le quattro soluzioni  richiedono sacrifici che finora non abbiamo voluto fare. È arrivato il momento di decidere a cosa rinunciare:  a dei diritti, a dei servizi,  oppure accettiamo di pagare di più con una piccola pressione mutualistica aggiuntiva dedicata alla non autosufficienza».

Occorre poi aggiungere che manca anche il personale nella Sanità italiana…

«In realtà mancano solo gli infermieri, per due motivi: ci sono sempre meno giovani, e l’attuale generazione ha una cifra psicologica più narcisista e quindi non è più attratta dai lavori di cura e non si gratifica nell’aiutare gli altri, ma cerca attività che la faccia risplendere».

Qual è la sua ricetta per ripopolare nel modo giusto la Sanità?

«Le soluzioni possibili sono quattro:

  • Dare più valore al lavoro laico. L’ASL di Varese, fortemente penalizzata dal fatto che gli infermieri vanno in Svizzera per guadagnare il triplo, ha fatto un’analisi seria per scoprire che il 30’% del tempo lavoro degli infermieri veniva utilizzato in funzioni amministrative, non di sua competenza. Affidando agli amministrativi la parte burocratica il problema è stato mitigato.
  • Potenziare le tecnologie Dobbiamo sfruttare la robotica anche per preparare le confezioni monodose delle medicine. In questo modo è possibile alleggerire i compiti degli infermieri e delegare poi agli assistenti infermieri la distribuzione ai pazienti.
  • Utilizzare altre professioni sanitarie. Le professioni sanitarie sono 28, la carenza di vocazione sembra riguardare soprattutto gli infermieri. Quindi bisogna utilizzare altre figure delle professioni sanitarie per sostituire gli infermieri.
  • Creare l’assistente infermiere. A fianco dell’infermiere c’è l’OSS che formato in due anni può diventare assistente infermiere. Anche tra i badanti che oggi sono un milione e 150 mila ci possono essere dei potenziali assistenti infermieri se formati per due anni. Serve una strategia precisa per farlo, ma oggi ancora non c’è.

L’autonomia differenziata andrà a migliorare o peggiorare la situazione della Sanità Italiana?

«Premesso che in Sanità l’autonomia è già presente da 20 anni,  da quando il sistema è stato regionalizzato le performance del Servizio Sanitario Nazionale sono migliorate.  Il nostro modello di sviluppo non è omogeneo ma è ad avanguardia. Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino e Toscana spingono sull’innovazione,  gli altri seguono qualche anno dopo, ma nel complesso il sistema si evolve con un effetto a trascinamento verso l’alto. Noi dobbiamo rafforzare le competenze tecniche e manageriali di tutti i livelli istituzionali Ministero, Regioni e Aziende e non centralizzare il sistema per renderlo più efficiente».

 

 

Federica Bosco
Federica Bosco
Direttore Responsabile di QuotidianodellaSalute.it. Giornalista professionista, con una lunga esperienza nella comunicazione scientifica, sanitaria e nel sociale. “Parlare è un bisogno, ascoltare un’arte” diceva Goethe e forte di questo pensiero a poco più di 20 anni durante gli studi universitari ho iniziato a maturare esperienza in alcune trasmissioni televisive per raccontare lo sport, andando a cercare storie di promesse e futuri campioni. Completati gli studi al master di giornalismo e pubbliche relazioni di Torino, ho iniziato a collaborare con il quotidiano “Stampa Sera”, per diventare qualche anno più tardi inviata per la testata giornalistica Video News, del gruppo Fininvest. Dal 1998 mi occupo di giornalismo di inchiesta. Tra il 2013 ed il 2015 ho condotto una trasmissione televisiva per Media system dedicata al terzo settore per poi virare nella comunicazione sanitaria e scientifica. Amo le sfide e per questo in trent’anni di carriera non mi sono mai fermata. Ho cercato sempre nuove avventure: televisive, radiofoniche, su carta stampata e, negli ultimi dieci anni sul digitale. Nel frattempo, ho pubblicato tre libri inchiesta: La Bambina di Bogotà (2015) tradotto anche in inglese, Sbirri Maledetti eroi (2019) tradotto in francese, tedesco e inglese e RaccontaMI (2021). Apprezzo la gentilezza e la sensibilità, valori che provo a trasmettere anche nel mio lavoro. Professionalità, precisione e rigore sono caratteristiche che mi contraddistinguono. Ho scritto un romanzo su una storia di adozione internazionale perché credo che l’amore non abbia confini... e i bambini siano il bene più prezioso della vita. Amo i miei figli. Adoro viaggiare e scoprire volti e storie da raccontare. Ho fatto atletica per dieci anni a livello agonistico, amo lo sprint, la competizione e il gioco di squadra tre valori che mi ha trasmesso lo sport e che ho fatto miei. Vorrei riuscire a guidare una squadra vincente in grado di scalare una montagna e una volta arrivata in cima capace di pensare di essere solo a metà del percorso.
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