Le trasfusioni in cardiochirurgia, procedura ampiamente utilizzata in chirurgia cardiaca extracorporea, ritenuta utile per ridurre le trasfusioni di sangue, potrebbe non portare i benefici sperati. È quanto emerge da uno studio clinico internazionale di ampio respiro, coordinato dall’IRCCS Ospedale San Raffaele, e appena pubblicato sulla prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine.
La ricerca internazionale guidata dal San Raffaele
La ricerca, la più grande mai condotta sulle trasfusioni in cardiochirurgia, ha dimostrato che l’emodiluizione normovolemica acuta (ANH), procedura che diluisce il sangue del paziente poco prima dell’intervento con soluzioni liquide (come salina o colloidi), in modo da mantenere costante il volume del sangue in circolo e abbassare la dispersione effettiva di globuli rossi, non riduce significativamente il numero di trasfusioni di sangue allogenico nei pazienti adulti sottoposti a chirurgia cardiaca con bypass cardiopolmonare (CPB). Non solo, non ha mostrato vantaggi in termini di sicurezza o riduzione delle complicanze. Un risultato che spinge i ricercatori a rivedere le linee guida e le pratiche cliniche, con importanti ricadute sull’organizzazione sanitaria e sull’uso delle risorse, aprendo la strada a strategie più efficaci e mirate.
Uno studio che può cambiare la pratica clinica
I dati raccolti su oltre 2000 pazienti in 32 centri di 11 Paesi dimostrano, infatti, che la differenza nel numero di trasfusioni tra chi riceve ANH e chi NO è clinicamente irrilevante. «Il nostro studio dimostra in modo chiaro che l’emodiluizione normovolemica acuta non porta ai benefici che ci si aspettava – spiega il dottor Fabrizio Monaco, primo autore dello studio e responsabile delle sale operatorie cardio-toracico-vascolari del San Raffaele e potrebbe persino aumentare il rischio di re interventi per sanguinamento». Non solo, anche la mortalità a 30 giorni e le complicanze ischemiche o renali risultano simili nei due gruppi. Una scoperta che invita la comunità medico-scientifica a rivalutare criticamente l’utilizzo di questa tecnica.
Il San Raffaele guida la ricerca internazionale
Il San Raffaele, grazie a questa ricerca su trasfusioni in cardiochirurgia, si conferma leader nella sperimentazione clinica di alto livello, capace di influenzare le linee guida internazionali e di contribuire concretamente all’evoluzione delle pratiche mediche. Il lavoro guidato dal team dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, con il contributo di prestigiosi ricercatori come il professor Giovanni Landoni e il professor Alberto Zangrillo, si inserisce nel contesto di una medicina orientata verso tre obiettivi: efficacia, sicurezza e sostenibilità. «Questo studio – commenta il professor Landoni, direttore del Centro di Ricerca Anestesia e Rianimazione del San Raffaele – ci permette di ottimizzare le risorse e di indirizzare l’attenzione su interventi realmente efficaci, come il miglioramento dell’emostasi chirurgica, l’uso di test rapidi per la coagulazione al letto del paziente, e la preparazione preoperatoria mirata».
Verso nuove ricerche
Il risultato di questo studio non è solo la fine di una pratica considerata poco efficace, ma l’apertura di nuove strade nella gestione peri operatoria del paziente cardiochirurgico. «Il nostro Istituto ha dimostrato la capacità di condurre studi che possono cambiare la pratica medica globale – sottolinea il professor Alberto Zangrillo –. Il futuro ci chiama a concentrare le nostre energie su strategie alternative che abbiano già dimostrato di migliorare davvero gli esiti per i pazienti». Tra le prossime sfide ci sono: l’ottimizzazione dell’emostasi chirurgica, l’adozione di protocolli più stringenti per il recupero e la re infusione del sangue perso durante l’intervento, l’uso di farmaci preoperatori e supplementi per migliorare la preparazione dei pazienti alla cardiochirurgia.
L’impatto sanitario: qualità e sostenibilità
Ridurre l’uso di procedure inefficaci significa anche contenere i costi sanitari, evitare rischi inutili per i pazienti e rendere più efficiente l’allocazione di risorse limitate, come il sangue per le trasfusioni. «La buona ricerca non è solo quella che scopre nuove cure, ma anche quella che ci aiuta a capire cosa non serve – ha ricordato Eric Rubin, editor-in-chief del New England Journal of Medicine –. Gli studi che confutano pratiche consolidate sono preziosi per una medicina più sicura ed efficace».