Sono oltre 30 mila le persone che in Italia convivono con un pacemaker per aiutare il cuore nella sua funzione. Apparecchi non più grandi di una moneta da due euro che, inseriti direttamente nella cavità cardiaca attraverso la vena femorale, permettono di contrastare la bradicardia, ovvero un battito troppo lento del cuore. La tecnologia corre veloce e negli ultimi anni sono nati dispositivi leadless, ovvero senza catetere. Novità impercettibile ai più, ma che può cambiare la vita al paziente. La conferma arriva da uno dei massimi esperti, il dottor Patrizio Mazzone, Direttore della Cardiologia 3 Elettrofisiologia dell’ASST Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano. (nella foto)
Siamo dinnanzi ad una nuova era per la tecnologia impiantistica cardiaca?
«Nel campo dei dispositivi stiamo raccogliendo ora i frutti degli investimenti economici e delle valutazioni scientifiche della ricerca degli ultimi 10-15 anni. Dopo una fase in cui abbiamo potuto contare soprattutto su miglioramenti relativi ai software di questi strumenti, abbiamo cominciato a utilizzare dispositivi molto più piccoli e ancora più sicuri dei precedenti. Oggi i pazienti possono contare su pacemaker leadless, costituiti da un’unica componente».
Cosa significa pacemaker senza fili?
«La grande novità del momento è rappresentata da una tecnologia più pratica senza fili. Per capire la nuova versione occorre però fare un passo indietro. I pacemaker tradizionali sono dispositivi molto piccoli, impiantati nel cuore attraverso la vena succlavia, cefalica o ascellare e sono posizionati nella regione sotto pettorale sinistra. Pur essendo molto performanti questi dispositivi si possono rompere o infettare. Motivo per cui negli ultimi anni sono nati i leadless, ovvero pacemaker dove generatore e catetere sono tutt’uno. Sono ancora più piccoli, leggeri e vengono posizionati nel cuore attraverso la vena femorale destra o sinistra. Da pochi mesi, oltre al leadless ventricolare si è reso disponibile anche quello atriale che può essere impiantato anche in combinazione con quello ventricolare».
Perché i pacemaker leadless sono più sicuri?
«Hanno il vantaggio di non infettarsi e non sono soggetti alla rottura che invece è abbastanza frequente nei pacemaker tradizionali a causa delle frizioni tra il catetere e le clavicole nel movimento ripetuto delle braccia. Questo li rende particolarmente indicati per alcuni pazienti».
A chi è indicato e chi invece deve optare per il pacemaker tradizionale?
«Come tutte le tecnologie anche i pacemaker leadless non sono per tutti. O meglio sono particolarmente indicati ad alcuni pazienti. Parliamo di soggetti affetti da insufficienza renale, di anziani con molte comorbidità, di diabetici e scompensati che hanno già avuto una pregressa infezione e quindi sono più vulnerabili e hanno maggiore possibilità di reinfezione e ancora di non autosufficienti. Questi apparecchi sono impiantati direttamente nel cuore senza catetere perciò il paziente li dimentica. Anche nei giovani di 20 o 30 anni è una soluzione ottimale, soprattutto se si tratta di un paziente che necessita di un supporto occasionale. Al contrario per chi ha bisogno di una stimolazione continua la soluzione più praticata resta il pacemaker con catetere».
Quanto può durare il nuovo pacemaker leadless?
«Dopo aver vinto la sfida della sicurezza e della praticità, il prossimo obiettivo dei ricercatori è la tenuta nel tempo. Anche questi nuovi dispositivi si scaricano, ma non abbiamo conoscenza se accadrà tra dieci o venti anni, anche se dati preliminari sono molto positivi. Non dovrebbe essere un problema toglierlo e reimpiantarne uno nuovo, ma abbiamo per ora una casistica limitata al riguardo».
Che altre evoluzioni possiamo aspettarci in futuro?
«Gli ultimi dispositivi stanno già segnando la strada: in futuro, noi cardiologi lavoreremo con i dispositivi quasi solo fuori dal cuore. I device interni comunicheranno con l’esterno, consentendo un monitoraggio puntuale delle funzionalità dell’organo, oltre a tutti i controlli necessari. L’altra prospettiva a cui andiamo incontro è quella che vedrà il ricorso a dispositivi sempre più personalizzati, come se fossero abiti su misura, che renderanno possibili terapie sempre più mirate».
Quale sarà il ruolo del De Gasperis Cardio Center di Niguarda in questa prospettiva?
«Il nostro centro ha una storia importante dal punto di vista della cultura medica e dell’evoluzione scientifica, nel campo della cardiologia in generale e del trattamento del sistema elettrico del cuore in particolare, anche grazie alla numerosità e complessità dei casi trattati, e al supporto della Fondazione Cardiotoracovascolare Angelo De Gasperis ETS alle attività di ricerca clinica e alla formazione sul campo. Nell’ambito dell’impianto di dispositivi innovativi il De Gasperis Cardio Center ha quindi tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento fondamentale nello sviluppo delle nuove tecnologie e uno dei centri propulsori a livello internazionale per fare ricerca tecnologica, formazione e divulgazione scientifica».