mercoledì, Luglio 9, 2025
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Melanoma e immunoterapia: nuove speranze da due studi italiani

Al congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) di Chicago, due studi coordinati da Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma e Immunoterapia dell’Istituto Pascale di Napoli, hanno acceso i riflettori su nuovi biomarcatori che permettono di prevedere l’efficacia delle terapie. Obiettivo: trattamenti su misura e meno effetti collaterali

L’Italia torna protagonista nella lotta contro il melanoma, il tumore della pelle più aggressivo, e purtroppo anche quello più in crescita tra i giovani adulti. Al congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), svoltosi a Chicago, due studi coordinati da Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma e Immunoterapia dell’Istituto Pascale di Napoli, hanno acceso i riflettori su nuove armi di precisione: due strumenti diagnostici che possono aiutare i medici a capire, già prima dell’inizio della terapia, se un trattamento funzionerà o meno studiando il microambiente tumorale.

Melanoma con mutazione BRAF

La sfida è nota: il melanoma con mutazione BRAF – una variazione genetica che spinge le cellule tumorali a crescere in modo incontrollato – può essere trattato con una combinazione di farmaci mirati e immunoterapia. Tuttavia, non tutti i pazienti rispondono allo stesso modo. Perché? E come scegliere, in anticipo, la terapia più efficace per ciascun malato? «Nello studio vengono messe alla prova diverse sequenze di farmaci inibitori di BRAF, che ‘spengono’ il gene iperattivato, e di immunoterapici, cioè farmaci che tolgono il ‘freno’ che impedisce alle cellule immunitarie di colpire il tumore – spiega Ascierto –. Si tratta di combinazioni che hanno rivoluzionato il trattamento del melanoma con mutazione BRAF, offrendo elevati tassi di risposta e benefici clinici prolungati anche in pazienti con metastasi».

Come il tumore parla con l’ambiente

Il primo studio ha utilizzato una tecnica all’avanguardia chiamata biologia spaziale, che permette di osservare come le cellule tumorali interagiscono con le cellule del sistema immunitario all’interno del microambiente del tumore. I ricercatori hanno analizzato 42 biopsie pretrattamento, identificando 15 tipi di cellule e 1.941 caratteristiche spaziali. Il risultato? Le interazioni tra cellule tumorali e cellule immunitarie, quando seguono certi “schemi” spaziali, sono collegate a una risposta migliore ai trattamenti. Al contrario, altre configurazioni sono associate a una prognosi peggiore. «Questo studio dimostra che non è solo importante “cosa” c’è nel tumore, ma anche “dove” si trovano le cellule e come interagiscono tra loro – spiega Ascierto. -La biologia spaziale potrà guidare scelte terapeutiche più mirate e aumentare l’efficacia delle cure».

Un biomarcatore nel sangue: la timidina chinasi 1

Il secondo studio ha esplorato un altro fronte: la timidina chinasi 1 (TK1), un enzima presente nel sangue e già noto in oncologia ematologica. Nei tumori solidi come il melanoma non era mai stato studiato in modo così approfondito. Analizzando 81 pazienti con melanoma metastatico, i ricercatori hanno scoperto che i livelli alti di TK1 sono associati a una sopravvivenza più bassa. In particolare, chi aveva alti livelli dell’enzima mostrava una sopravvivenza mediana di 19 mesi, contro una sopravvivenza non ancora raggiunta nei pazienti con TK1 basso. Tuttavia, un dato sorprendente è emerso: con un particolare schema terapeutico chiamato “approccio sandwich” – che alterna terapia target e immunoterapiai risultati erano simili indipendentemente dai livelli di TK1. Ciò suggerisce che questa strategia potrebbe neutralizzare il peso negativo di alcuni biomarcatori.

Una medicina sempre più personalizzata per affrontare la sfida con il melanoma

I due studi rientrano nel più ampio progetto clinico SECOMBIT, nato per valutare le sequenze terapeutiche più efficaci contro il melanoma BRAF mutato. L’oncologia sta entrando nell’era della precisione, dove la terapia viene scelta non solo in base al tipo di tumore, ma anche alla sua “architettura interna” e ai segnali biologici nel sangue. «Siamo entrati nell’era dell’immunoncologia di precisione – conclude Ascierto –. Questi risultati ci permettono di evitare trattamenti inutili e tossici, dando al paziente, fin dall’inizio, la terapia giusta per lui».

La speranza nel futuro

Le implicazioni sono enormi: meno effetti collaterali, più efficacia, e una gestione più sostenibile delle risorse sanitarie. Per i pazienti, significa una cura più vicina alla propria realtà biologica, e quindi, più possibilità di successo.

 

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