venerdì, Gennaio 24, 2025
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Malore Bove: Schwartz «Servono controlli più attenti; i segnali ci sono, bisogna saperli riconoscere»

Peter Schwartz, il maggior esperto al mondo della sindrome del QT lungo (LQTS): «Necessaria più formazione dei medici dello sport mentre nuovi studi rivelano che dall’ECG sotto sforzo è possibile riconoscere un segno che identifica il QT lungo anche in soggetti apparentemente sani»

«Troppi malori improvvisi tra atleti professionisti non sono accettabili, qualcosa deve essere rivisto». A lanciare il grido di allarme è il professor Peter Schwartz da 50 anni impegnato nello studio di malattie genetiche che sono alla base di eventi sincopali che colpiscono bambini e ragazzi.  E’ riconosciuto come il maggior esperto al mondo della sindrome del QT lungo (LQTS), prima causa di morte improvvisa nei giovani, di cui con il progressivo sviluppo delle terapie  ha  contribuito ad una drastica diminuzione della mortalità  (dal 50% a1%). Oggi dirige il Centro per le Aritmie Cardiache di Origine Genetica dell’Istituto Auxologico italiano di Milano, dopo essere stato per 20 anni il Direttore della Cattedra di Cardiologia all’Università degli Studi  di Pavia, ed è in procinto di presentare i risultati di un nuovo  studio  che può permettere di identificare la sindrome del  QT lungo in giovani atleti  apparentemente sani.

Prof. Peter Schwarz Direttore Centro Aritmie Genetiche Auxologico IRCCS

Professore , il referto di Edoardo Bove, calciatore della Fiorentina che domenica ha avuto un malore in campo, parla di arresto cardiaco con torsione di punta, una aritmia legata proprio alla sindrome del QT lungo, cosa significa?

«È un’aritmia strettamente associata alla sindrome del QT lungo, o situazioni con QT lungo indotto da farmaci, ed è anche favorita da ipopotassiemia. Non riesco ad immaginare che lui avesse una sindrome del QT lungo congenita, e che nessuno l’avesse riconosciuta. Però la torsione di punta è molto rara nelle cardiomiopatie mentre è quasi sempre associata ad un prolungamento dell’intervallo QT».

Mi sta dicendo che ci sono  farmaci che possono generare una sindrome da QT lungo?

«Esattamente, ci sono molti i farmaci di uso comune che  bloccano la corrente del potassio IKr  e dunque  hanno, tra gli eventi avversi, la potenzialità di indurre una aritmia fatale. Soprattutto in presenza di un basso livello di potassio possono diventare molto pericolosi, ma i medici dovrebbero conoscerli. Quando un paziente prende uno di questi farmaci è importante monitorare l’intervallo QT e se si allunga il farmaco va sospeso perché si rischia un malore».

Ancora una volta si parla però di malore improvviso in giovani atleti agonisti che hanno superato test, esami e prove sotto sforzo, come è possibile?

«Lei ha centrato la questione. Il problema è più complesso di quanto si voglia ipotizzare. Si vede ciò che si cerca».

Questo significa che ci sono tragedie evitabili, ma vengono ignorate le indicazioni dei medici sportivi?

«Per farle capire cosa può accadere a promesse sportive e giovani atleti quando emergono problematiche cardiache,  le racconto un fatto di cui mi sono occupato in passato. Nel 1990 è morto in diretta televisiva Hank Gathers, una promessa del basket americano che giocava nell’università di Chicago. Valeva molto. Ha iniziato ad avere delle aritmie e al contempo  è iniziata la parte di negazione. Era chiaro che erano aritmie pericolose ed erano correttamente curate con i farmaci beta-bloccanti, che però  lo rendevano meno performante in campo. Questo ha portato a riduzioni continue dei farmaci,  fino a farli diventare un placebo. La società voleva che continuasse a giocare, lui voleva proseguire l’attività e  la famiglia spingeva affinché non si fermasse. Ad un certo punto la società ha pensato di risolvere il problema acquistando un defibrillatore, ma anziché tenerlo in campo, era chiuso a chiave nello spogliatoio. Nel momento in cui Henk ha avuto un arresto cardiaco, non hanno avuto il tempo di utilizzarlo e la giovane promessa del basket americano è morta. I sintomi c’erano, ma la volontà dell’atleta e di tutta la cintura protettiva che aveva intorno a sé, spingeva verso un’altra direzione. Henk si è accasciato in campo durante un incontro, in diretta televisiva, e  l’inefficienza dei presenti, medici compresi, non ha permesso di salvarlo, come sarebbe stato facile con un defibrillatore al bordo del campo. Lo sport agonistico comporta uno stress elevato e il rischio di aritmie minacciose deve essere considerato una possibilità reale che va prevista. Non si può più dire “nessuno poteva prevederlo”. Sapere che può accadere, vuol dire essere pronti ad intervenire. E’ anche importante ricordare che gli arresti cardiaci degli atleti avvengono tipicamente non durante la corsa ma appena dopo essersi fermati».

Cosa accade al termine di uno sforzo nell’atleta?

«Durante la corsa l’atleta ha molte catecolamine in circolo. Quando si ferma, l’attività vagale  rallenta rapidamente la frequenza cardiaca.  Vi è quindi una presenza simultanea di acetilcolina  rilasciata dal vago e di adrenalina rilasciata dal sistema nervoso. Questo cocktail è micidiale perché aumenta la dispersione della ripolarizzazione ventricolare e favorisce le aritmie maligne. Non a caso, a chi fa prove da sforzo o si esercita sulla cyclette, si deve sempre dire di non fermarsi di colpo ma di fare “defaticamento” correndo ancora un po’ ma sempre più lentamente. Questo, nello sport agonistico, non è possibile».

In alcuni casi manca la volontà di fermare gli atleti che hanno una predisposizione genetica?

«Quello che temo è che in certe situazioni ci sia  poca attenzione a piccoli segnali che possono  generare un malore e fare la differenza tra la vita e la morte. E’ vero che alcune patologie pro-aritmiche, come le miocarditi, possono non essere diagnosticate in anticipo. Ma per le cardiomiopatie non dovrebbe essere così, se non raramente. In atleti professionisti, chiamati a fare prestazioni massimali, certe possibili patologie andrebbero cercate ed escluse. Il nascondersi dietro il fatto che gli esami fondamentali non erano stati fatti, non è più accettabile. Se un ragazzo con una sospetta aritmia fa un controllo in un centro cardiologico viene sottoposto a test genetici e ad esami approfonditi e magari fermato, se necessario. In un centro medico sportivo lo stesso ragazzo, se è un talento con chance di carriera, potrebbe a volte essere giudicato borderline e quindi ritenuto idoneo a svolgere l’attività agonistica. Una  società con un atleta eccellente a volte preferisce non approfondire per non sapere, continuando a sfruttare l’atleta per il suo valore. Purtroppo, peggio ancora sono i genitori che, molte volte, si oppongono all’interruzione dell’attività sportiva del figlio».

Lei ha parlato di piccoli segnali fondamentali per evitare un malore fatale, quali sono?

«Ci sono alcune alterazioni dell’elettrocardiogramma che sono modeste e che spesso riguardano la ripolarizzazione ventricolare,  che possono rappresentare segnali d’allarme.  Come io e Domenico Corrado di Padova abbiamo scritto dopo la morte in campo di Morosini, non si chiede ai medici dello sport di conoscere bene le malattie del fegato o del sangue, ma si pretende che conoscano molto bene tutte quelle situazioni che possono rappresentare un pericolo per un atleta, dare origine ad un malore  e che possono causare la morte improvvisa».

La stessa attenzione che devono avere i medici che rilasciano i certificati sportivi per atleti non agonisti…

«Questo è un altro aspetto molto importante che non deve essere sottovalutato. Con il mio gruppo di lavoro e in collaborazione con uno dei maggiori esperti di sport in Italia abbiamo appena concluso uno studio dove abbiamo rilevato la presenza di un segno molto particolare che compare nelle prove da sforzo di cui fino ad oggi nessuno si è mai occupato. Noi abbiamo realizzato che quando compare c’è un novanta per cento di probabilità che questi ragazzi abbiano la sindrome del QT lungo anche se partono da un QT normale. Ci sono dunque elementi nuovi da valutare per chi fa le prove da sforzo. Il problema vero è che spesso i medici dello sport, o gli internisti che fanno prove da sforzo, non approfondiscono la conoscenza di queste patologie. Sarebbe sufficiente che potessero riconoscere forme sospette e inviare questi giovani nei centri con esperti.   Spesso arrivano da noi atleti considerati idonei per anni, che invece hanno grosse evidenze di malattie genetiche ad alto rischio».

Quali possono essere i correttivi da adottare?

«La formazione dei medici dello sport e dei medici di medicina generale deve essere più completa in tema di  malattie genetiche che danno origine a morte improvvisa e, al  minimo dubbio, devono rivolgersi agli esperti».

Dopo un malore come quello accaduto a Bove è ipotizzabile la ripresa dell’attività agonistica?

«Il buon senso direbbe no, perché deve essere impiantato un defibrillatore e in uno sport da contatto il rischio di creare uno shock è alto. In linea generale dopo un arresto cardiaco  gli atleti non dovrebbero più fare attività agonistica. In Italia le normative sono stringenti, lo stesso però non accade in altri Paesi; quindi, un ritorno in campo non è da escludere».

Per chi non fa sport agonistico ma vuole andare in palestra, qual è il suo consiglio per non incorrere in un malore?

«Non fermarsi al certificato rilasciato senza veri controlli.  Fare  sempre una visita dal medico dello sport con ECG sotto sforzo. E poi prestare attenzione al numero di ore di  palestra. Oggi c’è la moda di sviluppare i muscoli, ma bisogna sapere che questo genera un ingrandimento non solo di pettorali e bicipiti, anche del cuore.  Un cuore ingrossato diventa un cuore che non riceve abbastanza ossigeno, e questo lo si paga dopo i 40/50 anni. Si punta troppo al risultato e non ci domanda cosa si può perdere».

Federica Bosco
Federica Bosco
Direttore Responsabile di QuotidianodellaSalute.it. Giornalista professionista, con una lunga esperienza nella comunicazione scientifica, sanitaria e nel sociale. “Parlare è un bisogno, ascoltare un’arte” diceva Goethe e forte di questo pensiero a poco più di 20 anni durante gli studi universitari ho iniziato a maturare esperienza in alcune trasmissioni televisive per raccontare lo sport, andando a cercare storie di promesse e futuri campioni. Completati gli studi al master di giornalismo e pubbliche relazioni di Torino, ho iniziato a collaborare con il quotidiano “Stampa Sera”, per diventare qualche anno più tardi inviata per la testata giornalistica Video News, del gruppo Fininvest. Dal 1998 mi occupo di giornalismo di inchiesta. Tra il 2013 ed il 2015 ho condotto una trasmissione televisiva per Media system dedicata al terzo settore per poi virare nella comunicazione sanitaria e scientifica. Amo le sfide e per questo in trent’anni di carriera non mi sono mai fermata. Ho cercato sempre nuove avventure: televisive, radiofoniche, su carta stampata e, negli ultimi dieci anni sul digitale. Nel frattempo, ho pubblicato tre libri inchiesta: La Bambina di Bogotà (2015) tradotto anche in inglese, Sbirri Maledetti eroi (2019) tradotto in francese, tedesco e inglese e RaccontaMI (2021). Apprezzo la gentilezza e la sensibilità, valori che provo a trasmettere anche nel mio lavoro. Professionalità, precisione e rigore sono caratteristiche che mi contraddistinguono. Ho scritto un romanzo su una storia di adozione internazionale perché credo che l’amore non abbia confini... e i bambini siano il bene più prezioso della vita. Amo i miei figli. Adoro viaggiare e scoprire volti e storie da raccontare. Ho fatto atletica per dieci anni a livello agonistico, amo lo sprint, la competizione e il gioco di squadra tre valori che mi ha trasmesso lo sport e che ho fatto miei. Vorrei riuscire a guidare una squadra vincente in grado di scalare una montagna e una volta arrivata in cima capace di pensare di essere solo a metà del percorso.
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