«Troppi malori improvvisi tra atleti professionisti non sono accettabili, qualcosa deve essere rivisto». A lanciare il grido di allarme è il professor Peter Schwartz da 50 anni impegnato nello studio di malattie genetiche che sono alla base di eventi sincopali che colpiscono bambini e ragazzi. E’ riconosciuto come il maggior esperto al mondo della sindrome del QT lungo (LQTS), prima causa di morte improvvisa nei giovani, di cui con il progressivo sviluppo delle terapie ha contribuito ad una drastica diminuzione della mortalità (dal 50% a1%). Oggi dirige il Centro per le Aritmie Cardiache di Origine Genetica dell’Istituto Auxologico italiano di Milano, dopo essere stato per 20 anni il Direttore della Cattedra di Cardiologia all’Università degli Studi di Pavia, ed è in procinto di presentare i risultati di un nuovo studio che può permettere di identificare la sindrome del QT lungo in giovani atleti apparentemente sani.
Professore , il referto di Edoardo Bove, calciatore della Fiorentina che domenica ha avuto un malore in campo, parla di arresto cardiaco con torsione di punta, una aritmia legata proprio alla sindrome del QT lungo, cosa significa?
«È un’aritmia strettamente associata alla sindrome del QT lungo, o situazioni con QT lungo indotto da farmaci, ed è anche favorita da ipopotassiemia. Non riesco ad immaginare che lui avesse una sindrome del QT lungo congenita, e che nessuno l’avesse riconosciuta. Però la torsione di punta è molto rara nelle cardiomiopatie mentre è quasi sempre associata ad un prolungamento dell’intervallo QT».
Mi sta dicendo che ci sono farmaci che possono generare una sindrome da QT lungo?
«Esattamente, ci sono molti i farmaci di uso comune che bloccano la corrente del potassio IKr e dunque hanno, tra gli eventi avversi, la potenzialità di indurre una aritmia fatale. Soprattutto in presenza di un basso livello di potassio possono diventare molto pericolosi, ma i medici dovrebbero conoscerli. Quando un paziente prende uno di questi farmaci è importante monitorare l’intervallo QT e se si allunga il farmaco va sospeso perché si rischia un malore».
Ancora una volta si parla però di malore improvviso in giovani atleti agonisti che hanno superato test, esami e prove sotto sforzo, come è possibile?
«Lei ha centrato la questione. Il problema è più complesso di quanto si voglia ipotizzare. Si vede ciò che si cerca».
Questo significa che ci sono tragedie evitabili, ma vengono ignorate le indicazioni dei medici sportivi?
«Per farle capire cosa può accadere a promesse sportive e giovani atleti quando emergono problematiche cardiache, le racconto un fatto di cui mi sono occupato in passato. Nel 1990 è morto in diretta televisiva Hank Gathers, una promessa del basket americano che giocava nell’università di Chicago. Valeva molto. Ha iniziato ad avere delle aritmie e al contempo è iniziata la parte di negazione. Era chiaro che erano aritmie pericolose ed erano correttamente curate con i farmaci beta-bloccanti, che però lo rendevano meno performante in campo. Questo ha portato a riduzioni continue dei farmaci, fino a farli diventare un placebo. La società voleva che continuasse a giocare, lui voleva proseguire l’attività e la famiglia spingeva affinché non si fermasse. Ad un certo punto la società ha pensato di risolvere il problema acquistando un defibrillatore, ma anziché tenerlo in campo, era chiuso a chiave nello spogliatoio. Nel momento in cui Henk ha avuto un arresto cardiaco, non hanno avuto il tempo di utilizzarlo e la giovane promessa del basket americano è morta. I sintomi c’erano, ma la volontà dell’atleta e di tutta la cintura protettiva che aveva intorno a sé, spingeva verso un’altra direzione. Henk si è accasciato in campo durante un incontro, in diretta televisiva, e l’inefficienza dei presenti, medici compresi, non ha permesso di salvarlo, come sarebbe stato facile con un defibrillatore al bordo del campo. Lo sport agonistico comporta uno stress elevato e il rischio di aritmie minacciose deve essere considerato una possibilità reale che va prevista. Non si può più dire “nessuno poteva prevederlo”. Sapere che può accadere, vuol dire essere pronti ad intervenire. E’ anche importante ricordare che gli arresti cardiaci degli atleti avvengono tipicamente non durante la corsa ma appena dopo essersi fermati».
Cosa accade al termine di uno sforzo nell’atleta?
«Durante la corsa l’atleta ha molte catecolamine in circolo. Quando si ferma, l’attività vagale rallenta rapidamente la frequenza cardiaca. Vi è quindi una presenza simultanea di acetilcolina rilasciata dal vago e di adrenalina rilasciata dal sistema nervoso. Questo cocktail è micidiale perché aumenta la dispersione della ripolarizzazione ventricolare e favorisce le aritmie maligne. Non a caso, a chi fa prove da sforzo o si esercita sulla cyclette, si deve sempre dire di non fermarsi di colpo ma di fare “defaticamento” correndo ancora un po’ ma sempre più lentamente. Questo, nello sport agonistico, non è possibile».
In alcuni casi manca la volontà di fermare gli atleti che hanno una predisposizione genetica?
«Quello che temo è che in certe situazioni ci sia poca attenzione a piccoli segnali che possono generare un malore e fare la differenza tra la vita e la morte. E’ vero che alcune patologie pro-aritmiche, come le miocarditi, possono non essere diagnosticate in anticipo. Ma per le cardiomiopatie non dovrebbe essere così, se non raramente. In atleti professionisti, chiamati a fare prestazioni massimali, certe possibili patologie andrebbero cercate ed escluse. Il nascondersi dietro il fatto che gli esami fondamentali non erano stati fatti, non è più accettabile. Se un ragazzo con una sospetta aritmia fa un controllo in un centro cardiologico viene sottoposto a test genetici e ad esami approfonditi e magari fermato, se necessario. In un centro medico sportivo lo stesso ragazzo, se è un talento con chance di carriera, potrebbe a volte essere giudicato borderline e quindi ritenuto idoneo a svolgere l’attività agonistica. Una società con un atleta eccellente a volte preferisce non approfondire per non sapere, continuando a sfruttare l’atleta per il suo valore. Purtroppo, peggio ancora sono i genitori che, molte volte, si oppongono all’interruzione dell’attività sportiva del figlio».
Lei ha parlato di piccoli segnali fondamentali per evitare un malore fatale, quali sono?
«Ci sono alcune alterazioni dell’elettrocardiogramma che sono modeste e che spesso riguardano la ripolarizzazione ventricolare, che possono rappresentare segnali d’allarme. Come io e Domenico Corrado di Padova abbiamo scritto dopo la morte in campo di Morosini, non si chiede ai medici dello sport di conoscere bene le malattie del fegato o del sangue, ma si pretende che conoscano molto bene tutte quelle situazioni che possono rappresentare un pericolo per un atleta, dare origine ad un malore e che possono causare la morte improvvisa».
La stessa attenzione che devono avere i medici che rilasciano i certificati sportivi per atleti non agonisti…
«Questo è un altro aspetto molto importante che non deve essere sottovalutato. Con il mio gruppo di lavoro e in collaborazione con uno dei maggiori esperti di sport in Italia abbiamo appena concluso uno studio dove abbiamo rilevato la presenza di un segno molto particolare che compare nelle prove da sforzo di cui fino ad oggi nessuno si è mai occupato. Noi abbiamo realizzato che quando compare c’è un novanta per cento di probabilità che questi ragazzi abbiano la sindrome del QT lungo anche se partono da un QT normale. Ci sono dunque elementi nuovi da valutare per chi fa le prove da sforzo. Il problema vero è che spesso i medici dello sport, o gli internisti che fanno prove da sforzo, non approfondiscono la conoscenza di queste patologie. Sarebbe sufficiente che potessero riconoscere forme sospette e inviare questi giovani nei centri con esperti. Spesso arrivano da noi atleti considerati idonei per anni, che invece hanno grosse evidenze di malattie genetiche ad alto rischio».
Quali possono essere i correttivi da adottare?
«La formazione dei medici dello sport e dei medici di medicina generale deve essere più completa in tema di malattie genetiche che danno origine a morte improvvisa e, al minimo dubbio, devono rivolgersi agli esperti».
Dopo un malore come quello accaduto a Bove è ipotizzabile la ripresa dell’attività agonistica?
«Il buon senso direbbe no, perché deve essere impiantato un defibrillatore e in uno sport da contatto il rischio di creare uno shock è alto. In linea generale dopo un arresto cardiaco gli atleti non dovrebbero più fare attività agonistica. In Italia le normative sono stringenti, lo stesso però non accade in altri Paesi; quindi, un ritorno in campo non è da escludere».
Per chi non fa sport agonistico ma vuole andare in palestra, qual è il suo consiglio per non incorrere in un malore?
«Non fermarsi al certificato rilasciato senza veri controlli. Fare sempre una visita dal medico dello sport con ECG sotto sforzo. E poi prestare attenzione al numero di ore di palestra. Oggi c’è la moda di sviluppare i muscoli, ma bisogna sapere che questo genera un ingrandimento non solo di pettorali e bicipiti, anche del cuore. Un cuore ingrossato diventa un cuore che non riceve abbastanza ossigeno, e questo lo si paga dopo i 40/50 anni. Si punta troppo al risultato e non ci domanda cosa si può perdere».