martedì, Maggio 20, 2025
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Infermieri stranieri in Italia: Khalil, Winston e Edi, il cuore oltre la burocrazia

Le storie di Edi, Khalil e Winston rivelano la realtà dietro l'importazione di infermieri stranieri: burocrazia lenta, difficoltà linguistiche e riconoscimenti bloccati. Il punto di vista accademico: valorizzare competenze e armonizzare i titoli

L’Italia ha un problema cronico e crescente: la mancanza di infermieri. A fronte di una popolazione sempre più anziana e fragile con oltre due milioni di ultra-novantenni previsti nei prossimi decenni, il fabbisogno sanitario cresce, mentre le risorse umane calano. Non solo, migliaia di professionisti sanitari ogni anno emigrano per salari migliori e dunque le strutture ospedaliere si rivolgono sempre più spesso all’estero per reclutare personale. Ma integrare infermieri stranieri non è un processo semplice. Lo dimostrano le storie di chi, con passione e competenze, sceglie di curare nel nostro Paese, trovandosi a fronteggiare barriere culturali, linguistiche e amministrative.

Khalil, dalla Tunisia a Milano: «Ho studiato, lavoro… ma sono bloccato»

Khalil Samaali, 29 anni, tunisino, è arrivato in Italia grazie all’accordo tra il Ministero della Salute tunisino e il Gruppo San Donato, che ha sottoscritto un accordo bilaterale per portare in Italia 300 infermieri. Laureato in Tunisia e con 5 anni di esperienza maturata nel suo Paese, da qualche anno lavora in Italia: per due anni nel reparto di cardiochirurgia del IRCCS Galeazzi – Sant’Ambrogio a Milano ed ora in sala operatoria. Tuttavia, il suo percorso è ostacolato da una burocrazia lenta e spesso disorganizzata. «Per affittare una casa mi chiedevano documenti che non avevo ancora. Non riuscivo nemmeno ad avere una residenza fissa all’inizio. Ho fatto domanda per il riconoscimento del titolo un anno fa, ma non ho ancora avuto risposta dal Ministero della Salute – racconta Khalil -. Vorrei specializzarmi in accessi venosi o come strumentista, ma senza riconoscimento ufficiale non posso accedere ai master.» Lo stipendio basso e il costo della vita milanese aggravano la situazione: «Qui si fa fatica, eppure resto perché amo questo lavoro. I pazienti sono accoglienti, se vedono che vuoi imparare, ti aiutano».

Winston, dalle Filippine con una laurea nel cassetto e un’app per i colleghi

Winston Chicano ha 41 anni, è arrivato in Italia nel 2011 con una laurea in psicologia e anni di esperienza maturata nelle Filippine. Ma il suo titolo non è mai stato riconosciuto. «Ho fatto richiesta 10 anni fa, ma senza successo. Allora mi sono reinventato: ho studiato per diventare OSS e sono entrato all’ospedale Galeazzi- Sant’Ambrogio» Oggi lavora in emodinamica dopo aver trascorso anni in terapia intensiva. E nel tempo libero ha creato una app per aiutare i colleghi a gestire le forniture sanitarie. «Serve per trovare il materiale urgente nei reparti, sapere dov’è, quanto ce n’è e come raggiungerlo. È utile soprattutto per i neoassunti» Nonostante stipendi bassi e difficoltà burocratiche che l’hanno costretto a mettere nel cassetto la laurea in psicologia per dedicarsi all’assistenza sanitaria, Winston è rimasto in Italia per motivi familiari.  «Mia moglie ha il diabete e qui le cure sono gratuite. In altri Paesi, no. Solo che, dopo 14 anni, non ho ancora la cittadinanza. E la mia laurea resta inutilizzata».

Edi Cipress, infermiere filippino, Ospedale

Edi, un esame mancato per colpa della lingua, poi la rivincita e un appello al Ministero della Salute

Edi Cipress ( nella foto) è arrivato in Italia nel 2012, lasciando la sua famiglia nelle Filippine. Laureato e abilitato nel suo Paese, ha dovuto imparare l’italiano da zero per accedere all’esame di riconoscimento del titolo. «La prima volta l’ho fallito. La prova scritta era difficile e la lingua era il mio limite». Nel frattempo, ha lavorato in RSA grazie al decreto emergenza Covid, ma sapeva che era solo una soluzione temporanea. Nel 2022 ha riprovato l’esame e l’ha superato. Oggi lavora al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Saronno.  «Ora posso finalmente esercitare come infermiere. Ma conosco molti colleghi che aspettano dal 2018 e non possono nemmeno sostenere l’esame. Hanno già lavorato anni in Italia, sanno curare, eppure rischiano di dover ricominciare tutto da capo perché hanno ricevuto il diniego dal Ministero della Salute. Alla loro domanda mancano circa 200 ore di tirocinio, eppure da anni lavorano negli ospedali italiani». Edi lancia un appello: «Il governo dovrebbe riconoscere quelle ore di lavoro come parte della formazione. Non possiamo permetterci di perdere professionisti preparati per colpa della burocrazia».

Una crisi che chiede risposte coraggiose

Secondo la Fondazione ISMU, in Italia ci sono solo 6,2 infermieri ogni 1.000 abitanti, contro i 15 della media nordeuropea. Nei prossimi 15 anni, il 40% degli attuali infermieri andrà in pensione, e ogni anno migliaia emigrano. Importare personale sanitario non è più un’opzione, ma una necessità. Tuttavia, senza un sistema rapido di riconoscimento dei titoli, supporto linguistico e integrazione culturale, rischiamo di alimentare un paradosso: importare infermieri solo per poi ostacolarli. Le storie di Khalil, Winston ed Edi raccontano una verità scomoda, ma oggi indispensabile: senza valorizzare chi arriva, non riusciremo mai a colmare davvero il vuoto che cresce nei nostri ospedali.

Il punto di vista accademico: «Valorizzare le competenze, armonizzare i titoli»

A commentare queste difficoltà è Maura Lusignani, Presidente del Collegio Didattico Interdipartimentale del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università Statale di Milano, che ogni anno forma 1.700 studenti: «La nostra formazione è chiara, trasparente e rispettosa degli standard europei: 4600 ore di cui metà teoriche e metà pratiche. Il problema nasce quando i titoli esteri non sono comparabili, e serve una vera armonizzazione tra università». Non è solo una questione di numero di ore, evidenzia: «In Italia formiamo infermieri con competenze avanzate, spesso superiori a quelle richieste in ospedale. È necessario valorizzarle, e questo vale anche per chi arriva da fuori: se ha già dimostrato sul campo le sue capacità, dobbiamo riconoscerlo». Un altro punto critico è la comunicazione con i giovani: «Molti non sanno cosa fa davvero un infermiere oggi. È una figura autonoma, con grandi responsabilità. Bisogna spiegarlo meglio nelle scuole e valorizzarlo anche dal punto di vista retributivo, altrimenti continueremo a perdere talenti». Senza un cambio di passo, rischiamo di perdere non solo una risorsa preziosa, ma anche la fiducia di chi ha scelto il nostro Paese per curare.

 

Federica Bosco
Federica Bosco
Direttore Responsabile di QuotidianodellaSalute.it. Giornalista professionista, con una lunga esperienza nella comunicazione scientifica, sanitaria e nel sociale. “Parlare è un bisogno, ascoltare un’arte” diceva Goethe e forte di questo pensiero a poco più di 20 anni durante gli studi universitari ho iniziato a maturare esperienza in alcune trasmissioni televisive per raccontare lo sport, andando a cercare storie di promesse e futuri campioni. Completati gli studi al master di giornalismo e pubbliche relazioni di Torino, ho iniziato a collaborare con il quotidiano “Stampa Sera”, per diventare qualche anno più tardi inviata per la testata giornalistica Video News, del gruppo Fininvest. Dal 1998 mi occupo di giornalismo di inchiesta. Tra il 2013 ed il 2015 ho condotto una trasmissione televisiva per Media system dedicata al terzo settore per poi virare nella comunicazione sanitaria e scientifica. Amo le sfide e per questo in trent’anni di carriera non mi sono mai fermata. Ho cercato sempre nuove avventure: televisive, radiofoniche, su carta stampata e, negli ultimi dieci anni sul digitale. Nel frattempo, ho pubblicato tre libri inchiesta: La Bambina di Bogotà (2015) tradotto anche in inglese, Sbirri Maledetti eroi (2019) tradotto in francese, tedesco e inglese e RaccontaMI (2021). Apprezzo la gentilezza e la sensibilità, valori che provo a trasmettere anche nel mio lavoro. Professionalità, precisione e rigore sono caratteristiche che mi contraddistinguono. Ho scritto un romanzo su una storia di adozione internazionale perché credo che l’amore non abbia confini... e i bambini siano il bene più prezioso della vita. Amo i miei figli. Adoro viaggiare e scoprire volti e storie da raccontare. Ho fatto atletica per dieci anni a livello agonistico, amo lo sprint, la competizione e il gioco di squadra tre valori che mi ha trasmesso lo sport e che ho fatto miei. Vorrei riuscire a guidare una squadra vincente in grado di scalare una montagna e una volta arrivata in cima capace di pensare di essere solo a metà del percorso.
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