Il Bello che c’è! Salvarsi la vita. Futura, nome di fantasia, oggi è una donna di 55 anni, madre, moglie e donna realizzata nel lavoro. Fino a qui tutto bene. Al nostro incontro è arrivata sorridente, accogliente, con gli occhi limpidi. Una donna libera. Una sopravvissuta. Futura parla con me, mi consegna un racconto, è un fiume in piena. Sono la sua catarsi...
La strada si interrompe
A 20 anni pensavo di avere il mondo stretto in pugno, nessuno poteva fermarmi, nessuno poteva mettersi tra me e la conquista del mio domani. Una laureanda in psicologia e tanti sogni professionali da conquistare. Questo era l’obiettivo. Poi ho conosciuto lui e la strada è franata. All’inizio era un amore folle, colmo di passione e ardore. Io stravedevo per lui e lui era ossessionato da me. Tutto perfetto. Era di otto anni più grande e questo mi dava una certa sicurezza. Aveva un lavoro stabile, l’ambito posto fisso ed io, ancora squattrinata, avevo una spalla su cui appoggiarmi nelle difficoltà di un lavoro precario.
Qualcosa inizia a stonare
Conosco i suoi genitori, siciliani d’origine, trasferiti in Piemonte. Entrambi operai della Fiat che hanno visto l’emancipazione grazie al miracolo italiano degli anni ’50 e ’60. Sono accolta come una figlia, già una nuora e cognata per i suoi fratelli. Tutto sembrava pianificato, come una tavola apparecchiata con tanto di posate d’argento e tovaglie ricamate d’oro, ma l’orrore era sotto il tappeto. Il tempo passava, davo sempre meno esami, perché lui mi faceva notare che sottraevo tempo alla costruzione del nostro amore, ed io pensavo: caspita come sono stata fortunata, mi ama tantissimo! Poi ho iniziato a non andare a lavorare, del resto mi voleva sempre al suo fianco nel tempo libero e poi guadagnava già abbastanza bene per soddisfare anche la vita di una ventenne. Cosa volevo di più?
I primi occhi neri
I miei occhi sono chiari, anzi, sono cerulei. Quando sono felice hanno anche delle pagliuzze dorate! Peccato che per tanti anni quel dorato non abbia più fatto capolino. Sono nata il 21 marzo, come Alda Merini, come la sua poesia: Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta. Io non sono nata folle, la mia mamma mi diceva che ero una bambola, dove mi metteva stavo. Sono diventata pazza, dopo. Dopo, con lui. Mancavano pochi giorni al mio 23esimo compleanno e avevamo festeggiato, con le famiglie riunite, tre anni di fidanzamento. Quella sera durante un banale litigio lui mi ha dato il primo pugno. In pieno viso. Ho festeggiato quel compleanno con un occhio ancora livido, sorridendo alle foto, agli amici e alle famiglie e scusandomi, perché la mia distrazione mi aveva portato a sbattere contro lo stipite di una porta. Succede!
Sigarette spente sulle braccia e botte
Quello è stato l’inizio di una “storia prima felice e poi dolentissima e funesta”. Come recitava un bellissimo libro di Pietro Citati che raccontava di una storia dell’800, mentre la mia si dirigeva alle porte di un nuovo Millennio. La mia faccia spesso aveva colori diversi, dipendeva dal tipo di ematoma: assumeva una colorazione bluastra/violacea, talvolta nera e dopo circa una settimana, l’ematoma si vestiva di giallo-verdastro. Il mio fidanzato fumava tantissimo e spesso si confondeva. Spegneva il mozzicone sulle mie braccia, sulle mani o sulla schiena, insomma, dove riusciva ad arrivare. Spesso accadeva mentre ero distratta, mentre magari cercavo di esternare un mio pensiero, un ragionamento di qualsiasi tipo. La sua contrarietà si manifestava così.
Sindrome di Stoccolma
Ad un certo punto i pugni erano diventati troppo visibili, gli amici e i miei genitori iniziavano a fare domande ma io, da brava vittima con la Sindrome di Stoccolma, difendevo il mio carnefice e sostenevo teorie sempre meno credibili. Ma non avevo la forza di scappare. Mi aggrappavo all’amore. A quel brandello di amore che mi teneva legata. O forse era paura. Non lo so più. Un giorno è riuscito a tirarmi un accendino Zippo da una distanza di tre metri, mi colpì esattamente sotto l’occhio, mandandomi in ospedale. Aveva anche una buona mira.
Una casa precisa da ossessione
Erano passati 5 anni dal primo pugno. Avevamo messo su una casa alle porte di Milano. Bellissima. Pagata interamente dai suoi genitori. Ah, io nel frattempo avevo lasciato l’Università e avevo dovuto cambiare il mio amato lavoro di fotografa perché spesso, nei turni notturni, i colleghi erano ‘troppo’ maschi. Lui mi comprava i vestiti, sceglieva colori e modelli. Mi pettinava, mi adorava con la coda di cavallo, mentre i miei capelli erano mossi, lunghissimi e liberi. Puntavano verso il vento. Ma lui amava l’ordine. La nostra casa gli somigliava: precisa, maniacale, perfetta. Un’altra ossessione. I colori erano armonici e i mobili di design. Io ero completamente assente. La casa non aveva il mio gusto, i miei colori e la mia confusione. Il mio carattere. Avere un carattere nella nostra relazione non era contemplato. C’era già lui per entrambi. Il suo armadio era in ordine cromatico: le camice passavano dal bianco all’azzurro, dal blu fino al nero. Il mio era un groviglio di colori e tessuti stropicciati, lanciati a casaccio nella mia parte, piccola, di armadio. Ogni tanto, per insegnarmi l’ordine, mi buttava tutto fuori e mi guardava risistemare le mie cose.
Quella notte la fuga
Non ero più felice, avevo perso molti chili, ero cupa, come la notte più nera. E una notte quel nero si squarciò. Non ricordo nemmeno più il motivo dell’ennesimo litigio, non ricordo se fosse una cosa seria o una stupidata. Ricordo solo che stavo per morire sotto i suoi calci. Furono allo stomaco, alla milza, ai reni, alla schiena. Poi ricordo il vicino che bussa alla porta, con insistenza, lui che apre furioso, trasfigurato e vomita il suo odio contro quell’estraneo. Riesco a scappare, mi aggrappo alle gambe del vicino. Il mio angelo involontario.
Inizia la nuova vita
No, non è stato così semplice. Lo so che tutti si stanno domandando perché non sono scappata prima, perché non l’ho detto a qualcuno, perché non ho chiesto aiuto. Ecc. ecc… Non è così semplice spezzare le catene che ti soggiogano. Liberarsi di un uomo malato non è facile, perché ne vieni infettata e non capisci più chi è davvero normale. O quale sia la normalità. Dopo tutto questo, ha cercato per ben due volte di ammazzarmi in mezzo alla strada. Per fortuna senza riuscirci. Sono una donna che si è salvata, non è stato facile. Non c’erano sostegni, una rete di protezione. Pensavo di non essere creduta, capita. C’era vergogna, tanta, per aver permesso alla mia vita di finire dentro un baratro, confondendo l’amore con l’orrore. Oggi sono una donna diversa, ho delle cicatrici ancora visibili le altre, quelle che non si vedono, le hanno sofferte gli uomini che hanno avuto a che fare con me. Con una donna oltraggiata, amara, sprezzante. Poi ho incontrato mio marito e mi sono salvata, dentro una famiglia né felice né triste. Normale. E quanto è bello essere normali.
Riflessione
Mi sento esattamente come voi, schiaffeggiata dal racconto di Futura. Annichilita e infastidita per il tempo lungo che questa donna ha vissuto accanto ad un uomo così violento. Quante donne si trovano dentro le loro case a vivere l’orrore, magari davanti agli occhi dei figli. Oggi ci sono reti di aiuto, ci sono i Centri anti-violenza e stalking. C’è una legge, c’è il numero 1522 ma anche il 112 e 113. C’è un richiamo di salvezza, una mano tesa pronta a raccogliervi. Futura ha saputo uscire da quel tunnel di violenza psicologica e fisica. Per quanto possa essere difficile è possibile. Le donne non sono mai sole, hanno dalla loro la forza e la resilienza. Puntate verso il vento, come i capelli di Futura.