Il Covid non ci ha tolto tutto, perché non lo abbiamo permesso. Velocemente ci siamo ripresi le nostre vite con le unghie e con i denti. Ci siamo tenuti stretti i nostri lavori, pur sottopagati e con i datori in crisi. Una pandemia non è un gioco da ragazzi, ma oggi possiamo raccontarla. Qui la storia di una figlia, di una madre, del Coronavirus, e di un cuore in frantumi.
Un Covid scambiato per influenza
Rita arriva sorridendo, è una donna adulta, è capace di affrontare la sua quotidianità con saggezza e pacificazione emotiva. Controlla con sicurezza ogni espressione del suo volto. «Era il 30 ottobre del 2020 quando mia mamma Mafalda è improvvisamente peggiorata da quella che il medico curante aveva definito: “Una brutta influenza ma non è Covid!”. Mia madre era da una settimana che non stava bene, aveva la febbre e faceva fatica a stare in piedi. Aveva 83 anni ed era in buona salute. La prima ondata di Covid l’aveva trascorsa con mio papà, suo coetaneo, a casa, poi con l’estate avevano ripreso a vivere la loro vita, sempre in sicurezza e con consapevolezza».
In due giorni la situazione precipita
«La mattina del 31 ottobre decido di trasferirmi a casa dei miei genitori, in provincia di Milano, una telefonata di mio padre, molto agitato per la precipitata condizione fisica di mia mamma, mi aveva messo in allarme. All’inizio credevo che mia madre, in realtà, fosse caduta in una brutta depressione. Era una donna elegante di natura, minuta e silenziosamente amorevole. Da giovane era stata una donna con continui esaurimenti nervosi e soggetta a dimagrimenti e inappetenze importanti. Quel 31 ottobre le sono stata accanto, l’ho lavata e cambiato la camicia da notte e le continuavo a chiedere di reagire, di alzarsi e mangiare e che, se avesse continuato a fare così, avrei chiamato l’ambulanza. Aveva il terrore degli ospedali, diceva sempre: “Se entro non esco più”. Le ore passavano ma la situazione precipitava e nessuno di noi pensava al Covid. Tampone negativo e saturazione ancora buona».
Fame di ossigeno
«Verso tardo pomeriggio arriva il medico curante a casa e conferma, per l’ennesima volta, che non era Covid e che aveva solo bisogno di cambiare antibiotico e di riposare. Eppure, io la vedevo che il suo respiro con il passare dei minuti peggiorava, cercava aria come un nuotatore in apnea, sembrava soffocasse. Gli occhi semichiusi e il viso pallido. Chiamo l’ambulanza anche contro la sua volontà, arrivano e dopo pochi minuti ci comunicano che è da trasportare con urgenza in ospedale. Ha il Covid».
La speranza ci aveva illusi
«Forse potreste pensare che siamo stati sprovveduti a non aver pensato subito al Covid ma con tampone negativo e un medico di famiglia convinto dell’anamnesi su mia madre, ci siamo tranquillizzati sperando che pochi giorni ancora e si sarebbe ristabilita. Era il nostro desiderio. Più forte di qualsiasi realtà oggettiva. Ricordo solo che, mentre scendeva la prima rampa di scala, mia madre pose il suo sguardo dentro gli occhi azzurri di mio padre. Terrore e amore, un incrocio emotivo che ha attraversato 60 anni di vita insieme. Ed io ero lì, ferma, immobile ad assistere al loro ultimo saluto».
Ci vediamo dopo in ps
«Quattro piani senza ascensore, questi gli ultimi passi di mia madre dentro la sua casa. Eravamo arrivati nel 1986, l’acquisto e la gioia di due metalmeccanici che diventano proprietari di casa, dopo 20 anni di affitto in un due locali troppo piccoli per la nostra famiglia. Chissà se mia madre scendendo quelle scale avrà pensato alla prima volta in cui le fece in salita, chissà... Mentre con mio padre fu uno sguardo di saluto colmo di terrore, con me fu, prima di salire in ambulanza, un: “ci vediamo dopo in ps”. Entrambe non potevamo sapere che non ci saremmo mai più viste».
Anche il padre finisce in terapia intensiva
Difficile fermare il racconto di Rita, oggi 55 anni, è un fiume di parole che hanno bisogno di sgorgare da chissà quale recondito dolore. Non so capire, qui davanti a lei, in quale posto del suo corpo e del suo cuore fosse nascosto. Parole non visibili, non ascoltabili e mai pronunciate. «Da quel momento comincia un altro viaggio nell’orrore, quello che centinaia e migliaia di famiglie hanno vissuto. Fuori c’erano i negazionisti del Covid, i terrapiattisti dell’ultimo ora e dentro gli ospedali la follia. Impossibile avere informazioni, impossibile sentire la voce di mia madre, impossibile sperare di ricevere una telefonata dal reparto del nosocomio milanese in cui era ricoverata. Sposto le montagne, chiedo agli amici, cerco conoscenze, non so più cosa fare per avere sue notizie. Intanto mio padre viene ricoverato in terapia intensiva di un altro ospedale. Ha il Covid».
Una ‘sceneggiata’ per avere informazioni
«Mia madre entra in ospedale il 31 ottobre e muore l’11 novembre 2020. Il 6 novembre compiva gli anni e solo dopo essermi piazzata davanti alla porta del reparto, gridando come se fossi matta, riesco a parlare con una infermiera e a consegnarle il cellulare di mia madre. Una sola chiamata siamo riuscite a farci, aveva un filo di voce ma teneva botta, era passata dalla mascherina d’ossigeno al cipap ma essendo lei molto esile non riusciva a sostenere la posizione che il casco dell’ossigeno le imponeva».
Nessuno comunica la gravità
«Dopo aver fatto la matta fuori dalla porta del reparto riesco a farmi chiamare dalla responsabile sanitaria che mi conferma la media gravità di mia madre. Tutto, però, sotto controllo. Niente fa presagire la morte, da lì a pochi giorni. Intanto in casa il Covid colpisce anche me, mia figlia, mia sorella e mio nipote. Siamo tutti stesi a letto sotto cortisone e antibiotico. Mio padre sempre in terapia intensiva. Intanto la sorella adorata di mia madre muore di Covid nel giro di tre giorni e tutto intorno a noi assume il colore del dolore più sordo».
Arriva la telefonata dal reparto
“Signora sua madre sta un po’ peggiorando eh, vediamo cosa riusciamo a fare, però insomma dai, ha una certa età”, mi dice la responsabile sanitaria. “Ok ma non potete intubarla? In alcuni ospedali stanno intubando anche i novantenni”, dico io. “No, mi dispiace non è la mission del nostro ospedale, i letti servono ai giovani”, conclude. Alle due di quella notte iniziano a chiamarmi dall’ospedale. Quella è stata la prima notte dopo 11 giorni che crollo addormentata dopo aver preso dei tranquillanti. Alle 7 mi sveglio e trovo 8 telefonate dell’ospedale. Richiamo e mi rispondono: “Signora, avrà capito vero? Sua mamma è morta questa notte”.
Morire soli, nel silenzio
«Mia madre è morta. Sola. In silenzio. Senza che un suo caro le abbia potuto dire una parola, stringere la mano, accompagnarla con uno sguardo d’amore nel suo ultimo battito di ciglia. Ma questo è stato il Covid, ha tolto, a vivi e morti, la dignità. Il Covid ci ha tolto ogni rito funebre, ogni possibilità di vivere il lutto. Non ho portato a mia madre il suo vestito preferito, amava il rosso, non le ho portato la sua collana, la sua fede nuziale. Non le ho portato niente e non le ho dato niente, né un bacio né una carezza».
Un grido di dolore, ascoltato dalla stampa nazionale
«Chiusa in un sacco morturaio, nuda, senza dignità ha vagato per tutta la Lombardia in attesa di un forno crematorio pronto ad accoglierla. Persa tra una provincia e l’altra. Solo dopo un mese e mezzo le sue ceneri sono tornate a casa. Di mia madre l’ospedale mi consegna un sacco, un altro, della raccolta differenziata con dentro le sue cose, infette. Mi ci sarei tuffata, dentro. Gli oggetti di mia madre, gli abiti che indossava quel 31 ottobre, erano dentro un sacco rosso. Una vita di fatiche e di sacrifici per poi finire così. Un dolore immenso. Ho gridato davanti a quel sacco, davanti a quella porta chiusa del reparto. Sola anche io, come era stata mia madre per quegli 11 giorni. D’istinto, fotografo quel sacco che, simbolicamente, racchiudeva ai miei occhi tutto lo strazio di una perdita e la pubblico sui social. In una notte la foto diventa virale. Il giorno dopo avevo tutte le tv nazionali sotto casa. Nessuno fino a quel momento aveva avuto il coraggio di mostrare la realtà più cruda che molte famiglie erano state costrette a vivere».
Lo sfogo disperato sui social
“Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi. Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre. Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti”. Questa la didascalia della foto. «I negazionisti del Coronavirus hanno seminato morte e dolore, spaccando la società, addossando le colpe alla politica. La responsabilità è sempre un fatto individuale, ciascuno di noi doveva fare la propria parte per arginare la diffusione del virus».
Il peggio non era ancora arrivato
«Arriva quando chiedo al nosocomio la cartella clinica della mia mamma. Qui l’orrore tecnicista del linguaggio medico. Qualche ora prima della sua morte i medici dichiarano: “Il paziente è scaduto, si passa alla morfina”. L’hanno accompagnata alla morte e la mia fiducia nel sistema sanitario ha vacillato».
Il bello che c’è oggi
«Anche se non ho avuto sconti dal dolore e mia madre è stata trattata come un rifiuto, un alimento scaduto, ho fatto pace con il sistema sanitario e con il mio dolore personale. Io e tanti figli e tanti nipoti privati dei genitori e dei nonni, abbiamo attraversato la barriera della pandemia rafforzando l’amore. Il Covid non ci ha piegati e nemmeno i negazionisti o tutti quelli che poi hanno rifiutato di vaccinarsi. Il dolore non ha avuto la meglio sulla mia famiglia. Io non vado al cimitero, faccio fatica ma la cerco dentro la mia testa e al mio cuore ogni notte. La sento dentro ogni gesto che compio da madre, a mia volta. Chiedo solo una cosa: che mia figlia non debba mai vivere uno strazio così grande».
La riflessione
Alle parole di Rita è giusto non aggiungere altro. Ha detto quel che c’era da dire e va bene così. Grazie!