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Essere caregiver di un ragazzo con la sindrome di Prader Willi

Questa è la storia di un ragazzo con sindrome di Prader Willi. Il cibo la sua ossessione, la consapevolezza il vero dramma. Nelle parole di Alberto, padre e caregiver, l'aiuto dell'associazione e i limiti da superare

Filippo ha un desiderio irrefrenabile di cibo, che diventa una vera e propria ossessione, perché affetto dalla sindrome di Prader-Willi, una malattia genetica rara causata da un difetto del cromosoma 15.

Sindrome di Prader Willi, malattia genetica rara

Annoverata tra le malattie rare,  di solito colpisce il singolo individuo e solo qualche volta si eredita dai genitori. Ad occuparsi di Filippo sono mamma e papà. Due genitori caregiver che da 30 anni non lo perdono mai di vista.  «Lui è come una macchina  sempre in riserva – dice Alberto,  papà di Filippo –. La cosa peggiore è che è consapevole della sua malattia,  ma non riesce a rinunciare al cibo, anche a costo di raccoglierlo per strada o rubarlo».

I segni della sindrome di Prader Willi scoperti alla nascita

«Quando è nato Filippo di questa malattia si sapeva poco – racconta Alberto -. Noi siamo stati comunque fortunati perché abbiamo capito subito che aveva qualcosa che non andava. Appena nato i medici mi hanno convocato per dirmi che il bambino si muoveva, ma aveva qualcosa a livello muscolare che non andava bene e che avrebbero fatto una indagine genetica. Dopo un mese, è arrivata l’amara verità: sindrome di Prader Willi». Alberto e la moglie non conoscono nulla di questa patologia e cercano risposte anche su internet. Dal web scoprono che a Torino ci sarà di lì a qualche giorno il congresso nazionale  e decidono di andare per conoscere bene la patologia di cui è affetto Filippo. Le informazioni che ricevono sono impietose. «Mia moglie ed io abbiamo fatto tutto il viaggio di ritorno piangendo», racconta Alberto. «Lo shock è stato talmente grande che da allora non siamo più tornati a Torino».

Quando la vita cambia

«I primi anni sono stati comunque sereni – ricorda Alberto -. Mia moglie ha dovuto lasciare il lavoro  per stargli dietro, ma grazie alla fisioterapia, ad esempio, Filippo è riuscito a camminare poco dopo i suoi coetanei». Questa malattia genetica che, secondo i dati del registro nazionale, ha una leggera prevalenza nelle  femmine (54%) rispetto al 46% dei maschi. Si manifesta in due fasi: nei primi anni di vita del bambino, e intorno ai cinque anni. Appena nato, a causa di una ipotonia muscolare, il bambino fatica a nutrirsi e necessita di tettarelle speciali, oppure di un sondino naso gastrico. La fase successiva verso i cinque o sei anni di età è caratterizzata invece da un aumento patologico dell’appetito (iperfagia) causato da una mancanza di senso di sazietà a livello dell’ipotalamo. Una condizione che tende a peggiorare con l’adolescenza. «All’inizio Filippo non chiedeva tanto cibo  – fa notare Alberto -. Ma abbiamo  comunque dovuto allertare amici  e parenti di non dare caramelle, coca-cola e altri dolci. Nel periodo della scuola siamo stati fortunati, l’insegnante di sostegno era molto valida per cui non abbiamo avuto grossi problemi».

L’età dell’adolescenza: inizia la crisi

I problemi legati alla gestione della malattia per Filippo e i suoi genitori iniziano con l’adolescenza. «L’avvio della scuola superiore apre un mondo nuovo e Filippo sviluppa una forte conflittualità in particolare con la mamma. Dai 16 ai 18 anni tutto diventa complicato. Ricordo il giorno del suo diciottesimo compleanno come un incubo. Per la prima volta gli vengono somministrati psicofarmaci. Abbiamo vissuto quel passaggio come una sconfitta, per non essere riusciti a gestirlo da un punto di vista comportamentale. Certamente la terapia farmacologica ha portato dei benefici, ma non è la panacea di tutte le problematiche».

Il dramma di chi ha la sindrome Prader Willi: la consapevolezza

«L’aspetto peggiore della malattia per noi genitori caregiver e per Filippo è l’essere consapevole di avere un disturbo e non poter cambiare le cose – sottolinea Alberto a più riprese -. Lui, ad esempio, vorrebbe frequentare un istituto a Bergamo. Da solo sarebbe in grado di acquistare il biglietto e di andare, ma non lo può fare. Ad impedirglielo l’incapacità di controllare la fame. Se durante il tragitto  Filippo dovesse vedere un pezzo di pizza o del cibo in un cestino dell’immondizia, lo mangerebbe in un attimo. La fame è il vero problema».

Il ruolo dell’associazione

I centri di riferimento per chi ha questa malattia genetica rara sono molti in Italia. Se ne contano circa 25 suddivisi tra adulti e pediatrici con una presenza capillare sul territorio che contraddistingue l’Italia dal resto d’Europa, in particolare dei paesi del nord  (Olanda, Norvegia, Svezia, Germania) dove i centri di solito sono due soltanto (uno pediatrico e uno per gli adulti). Non solo l’Italia vanta una rete di associazioni territoriali che dialogano tra loro e con la Federazione nazionale Prader Willi Italia PWS per fornire informazioni a ai genitori su terapie, farmaci, ma anche su questioni burocratiche come attivare la 104, oppure richiedere il riconoscimento di invalidità e l’accompagnamento.

Servono luoghi di socialità

A funzionare è anche l’alleanza tra genitori caregiver e medici.  «L’idea del registro nazionale è la conferma di questa sinergia – spiega ancora papà Alberto -.  Ma le criticità presenti nel sistema sono ancora evidenti: mancano ancora strutture adeguate ad accogliere bambini e  adulti con questa sindrome». Qualcosa è stato fatto a livello territoriale. In particolare, dall’associazione Prader-Willi Lombardia che ha lanciato una raccolta fondi per sostenere il progetto Asso. Una proprietà immobiliare localizzata ad Asso, in provincia di Como, caratterizzata da tre costruzioni e un grande giardino dove i pazienti con la sindrome di Prader Willi possono socializzare tra di loro  e superare l’isolamento a cui sono spesso costretti».

 

Federica Bosco
Federica Bosco
Direttore Responsabile di QuotidianodellaSalute.it. Giornalista professionista, con una lunga esperienza nella comunicazione scientifica, sanitaria e nel sociale. “Parlare è un bisogno, ascoltare un’arte” diceva Goethe e forte di questo pensiero a poco più di 20 anni durante gli studi universitari ho iniziato a maturare esperienza in alcune trasmissioni televisive per raccontare lo sport, andando a cercare storie di promesse e futuri campioni. Completati gli studi al master di giornalismo e pubbliche relazioni di Torino, ho iniziato a collaborare con il quotidiano “Stampa Sera”, per diventare qualche anno più tardi inviata per la testata giornalistica Video News, del gruppo Fininvest. Dal 1998 mi occupo di giornalismo di inchiesta. Tra il 2013 ed il 2015 ho condotto una trasmissione televisiva per Media system dedicata al terzo settore per poi virare nella comunicazione sanitaria e scientifica. Amo le sfide e per questo in trent’anni di carriera non mi sono mai fermata. Ho cercato sempre nuove avventure: televisive, radiofoniche, su carta stampata e, negli ultimi dieci anni sul digitale. Nel frattempo, ho pubblicato tre libri inchiesta: La Bambina di Bogotà (2015) tradotto anche in inglese, Sbirri Maledetti eroi (2019) tradotto in francese, tedesco e inglese e RaccontaMI (2021). Apprezzo la gentilezza e la sensibilità, valori che provo a trasmettere anche nel mio lavoro. Professionalità, precisione e rigore sono caratteristiche che mi contraddistinguono. Ho scritto un romanzo su una storia di adozione internazionale perché credo che l’amore non abbia confini... e i bambini siano il bene più prezioso della vita. Amo i miei figli. Adoro viaggiare e scoprire volti e storie da raccontare. Ho fatto atletica per dieci anni a livello agonistico, amo lo sprint, la competizione e il gioco di squadra tre valori che mi ha trasmesso lo sport e che ho fatto miei. Vorrei riuscire a guidare una squadra vincente in grado di scalare una montagna e una volta arrivata in cima capace di pensare di essere solo a metà del percorso.
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