La morte di Sharon Verzeni e della famiglia sterminata a Paderno Dugnano per mano di due giovani ha messo in luce un disagio giovanile profondo capace di trasformarsi in furia omicida, in apparente assenza di movente. Due casi estremi che impongono una riflessione più generale.
Cosa determina un disagio giovanile così profondo? 
Lo abbiamo chiesto alla professoressa Ernestina Politi, psichiatra, primario delle Unità operative di Psichiatria Generale Acuti all’’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro Milano (nella foto).
«Ci sono aspetti della vita quotidiana, come una difficoltà ad inserirsi in un contesto sociale o un debito scolastico che possono sembrare banali, ma che in realtà nascondono una condizione di profondo malessere per il giovane. Questo va ad impattare su una crescita non controllata e un vissuto di emozioni non esplorate».
Il muro invisibile tra un giovane e la propria famiglia può essere molto pericoloso?
«È fondamentale riconoscere la sofferenza psichica di un adolescente. Non necessariamente questa è di natura psicopatologica, ma va comunque presa in considerazione come cura della persona. A quell’età non si percepisce il rischio e si fa fatica a gestire le emozioni su cui si innesca il conflitto con i genitori che ci deve essere, ma deve costituirsi come punto di ingresso nell’età adulta attraverso la formazione dell’identità».
Cosa accade nella mente degli adolescenti?
«Si osserva nell’attualità un’anticipazione nello sviluppo psichico dei giovani, tanto che già intorno ai 9 anni, talvolta anche prima, si iniziano a notare i primi comportamenti da teenager. Questa accelerazione ha a che fare non solo con lo sviluppo puberale, ma anche con quello cerebrale. Questo è stato studiato in tempi relativamente recenti: alla fine degli anni ’90 da Jay N. Giedd. Per primo riuscì ad effettuare risonanze magnetiche a tempi successivi per studiare l’evoluzione neurale nei ragazzi. Un tempo si pensava che fossero solo gli “ormoni” ad attivare il cervello e che la dis-regolazione emotiva, dovuta a questi, facesse sì che i ragazzi nell’adolescenza “impazzissero”. Ora, invece, sappiamo che il processo bio-psicosociale è un tutt’uno: lo sviluppo cerebrale si sovrappone con quello dell’adolescenza e ad essere interessata è tutta la parte del cervello riferita alle emozioni e agli affetti».
Cosa si può fare per aiutare chi vive un disagio giovanile non necessariamente psicopatologico?
«Ad avere un ruolo chiave sono la famiglia, per la cura, e la scuola per l’istruzione. All’interno di questo “villaggio” ci sono poi diverse variabili come le tecnologie (cellulare e iPad) o i social che possono influire e determinare una grande sollecitazione tale da far sì che i ragazzi facciano fatica a capire ciò che è reale da ciò che non lo è».
Nei loro comportamenti ci sono dei segnali di disagio giovanile da non sottovalutare?
«L’abbandono scolastico è un indicatore importante del malessere adolescenziale. Oggi non è solo l’espressione di chi presenta difficoltà scolastiche, ma di ragazzi che mostrano tutta una serie di difficoltà adattive. Si tratta di ragazzi che fanno molte assenze e hanno la necessità di un sostegno con piani di studio personalizzati non per problematiche di apprendimento, ma per problematiche emotive e relazionali sia con i pari che con gli adulti. All’interno del lavoro scolastico vi sono quindi sempre più spesso dei piani scolastici che tengono conto di questo tipo di bisogni».
Come possiamo aiutarli?
«Il problema non è tanto come possiamo prevenire questi episodi di violenza estrema, ma nell’iniziare a pensare che nella dimensione della saluto-genesi, si rileva una grande importanza nella cura della persona e delle emozioni. Il che non vuol dire lasciar fare tutto ciò che vogliono ai ragazzi, ma iniziare a ragionare che nell’ambito dell’educazione e dell’istruzione devono progressivamente imparare a riconoscere e regolare gli stati emotivi, apprendere strategie di coping e la tolleranza alla frustrazione. È questo il grande compito della cura genitoriale che oggi a volte viene a mancare poiché, a loro volta, i genitori sono affaticati dalla sempre crescente pressione sociale e patiscono a separarsi dal proprio figlio che diventa investimento emotivo principale di riuscita sociale e affettiva. In realtà questo avviene primariamente nell’adolescenza, man mano che cresce il figlio mostra la sua diversità attraverso lo sviluppo della propria personalità».
Un consiglio per i genitori e gli educatori?
«La figura del caregiver in generale deve essere sempre quella di una persona che si prende cura dell’altro gratuitamente, dando anche un’istruzione. Sembra che si faccia, ma non è così. È importante pensare con i figli, analizzare i fatti e ascoltare. Questa fase è molto difficile ai giorni nostri perché sembra che non ci sia mai tempo da dedicare agli adolescenti che invece hanno bisogno di attenzione, di dialogo e anche di uno scontro costruttivo».