Congedi di paternità: tra retorica e realtà. Le mamme continuano a portare il peso del lavoro di cura, mentre le leggi italiane già permetterebbero ai papà di prendere parte a questo impegno.
Un problema culturale
Il vero problema è culturale, non normativo. Un segnale di controtendenza sono i padri che prendono il permesso per seguire i figli nella scelta delle scuole superiori o dell’università. Due o quattro settimane ai papà alla nascita di un figlio? Da anni se ne dibatte, come se nella risposta a questa domanda ci fosse la soluzione al tema del gender gap. Ma è davvero la domanda giusta? In realtà no e anzi sembra un modo di spostare l’attenzione sul vero tema.
Un retaggio per i padri
Che è la cultura del lavoro e della famiglia, che ancora vede i padri come marginali nelle responsabilità domestiche. I dati dimostrano che il problema non è la mancanza di congedi parentali (già disciplinati per legge e disponibili per il papà come per la mamma, almeno in Italia), ma il retaggio culturale che impedisce ai papà di utilizzarli. E allora due o quattro settimane retribuite alla nascita possono essere importanti a livello simbolico, ma nella pratica restano dettagli che non cambiano il work-life balance delle famiglie italiane.
La protesta dei papà in Inghilterra
Perché ne parliamo? Perché ha fatto molto rumore la singolare protesta dei papà inglesi sulla mancanza di congedi parentali. Nel Regno Unito persiste una mindset tradizionale che vede le madri come principali responsabili dei figli, mentre i padri tornano al lavoro rapidamente. E così, nonostante le esigenze di una società moderna, che cerca una distribuzione più equa del lavoro domestico e lavorativo, i padri britannici hanno solo due settimane di congedo retribuito, tra i peggiori in Europa.
Sostegno economico insufficiente
Questa breve pausa non permette loro di adattarsi alla vita da neo-genitori, costringendoli a rientrare nel mondo lavorativo prima di aver veramente legato con i figli. E non solo. Un terzo dei padri inglesi non utilizza nemmeno questo congedo, dato che il sostegno economico è insufficiente.
Cosa dice il sondaggio YouGov
Secondo un sondaggio YouGov commissionato dal gruppo Pregnant Then Screwed, ideato dal thinktank Centre for Progressive Policy (CPP) e da Women in Data, il 62% dei padri afferma che prenderebbe più congedo se fosse finanziariamente sostenibile. Così in tutto il Paese, per protesta e per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i promotori dell’iniziativa hanno “messo in braccio” dei bambolotti ad alcune statue pubbliche nei quartieri di Londra, come quella dell’ingegnere Isambard Kingdom Brunel, quelle degli attori Laurence Olivier e Gene Kelly o dei calciatori Thierry Henry e Tony Adams, “nel tentativo di focalizzare l’attenzione sull’importanza del legame padre-figlio”.
Congedi di paternità in Italia: questione normativa o culturale?
Secondo il nostro ordinamento, oltre ai cinque mesi di maternità obbligatoria per la madre, per ogni figlio la madre può fruire di ulteriori sei mesi di congedo parentale facoltativo, fino al compimento dei 12 anni di età del bambino. Ma ulteriori 6 mesi spettano all’altro genitore: il totale complessivo di congedi tra i genitori non può superare i 10 mesi. Fino al 2023, questo periodo era retribuito al 30%, al contrario dell’assenza obbligatoria pagata all’80%.
In Bilancio un aumento della retribuzione
La scorsa legge di Bilancio ha per la prima volta previsto un aumento – per l’anno 2024 – della retribuzione per il congedo parentale facoltativo, pagando i primi due mesi all’80%. Con la prossima legge di Bilancio il governo intende aumentare i mesi di congedo parentale per mamme e papà pagati all’80% dello stipendio da due a tre.
La normativa esiste e facilita il papà
Non solo. Il congedo parentale facoltativo aumenta se il padre sta a casa almeno 3 mesi; in questo caso il totale per la coppia viene elevato a 11 mesi. La normativa dunque non solo esiste, ma negli aggiornamenti più recenti cerca di incentivare i papà a fruire dei congedi parentali. Se questa opportunità non viene utilizzata è perché la cultura del lavoro e quella familiare non lo consentono.
Il retaggio culturale: il vero ostacolo
In Italia il lavoro domestico rimane largamente sulle spalle delle donne. Secondo il Gender Gap Index, le donne italiane dedicano ai lavori di assistenza e cura non retribuiti (la gestione dei figli, degli anziani, della casa), in media quasi 3 volte più tempo rispetti agli uomini (i dati sono qui EIGE sull’Italia). Per avere un termine di confronto su quanto lavori ci sia ancora da fare, basti pensare che le donne svedesi – che vivono nel Paese più avanti nella parità di genere -, dedicano circa 1,5 volte più tempo rispetto agli uomini ai lavori di cura non retribuiti. Meno dell’Italia, ma ancora un valore significativo. Dati che riflettono una profonda rigidità culturale che si ripercuote sul mondo del lavoro, influenzando la scarsa adesione degli uomini ai congedi di paternità e aumentando il divario di genere.
I congedi di paternità e i problemi di work-life balance
Se è vero che il primo periodo di “eso-gravidanza” – i primi nove mesi di vita del neonato – è più probabilmente la mamma ad aver bisogno di un lungo congedo parentale, per via del legame biologico e del necessario recupero fisico, non vi è alcuna ragione per cui, successivamente, i padri non possano fruire ugualmente di lunghi permessi per la cura dei figli. Tuttavia, la realtà è che spesso non lo fanno. E non è solo un problema di politiche o incentivi economici, che pure non vanno sottovalutati, ma di cultura.
Il padre visto come un caregiver
La figura del padre, specialmente in Italia, è ancora intrappolata in stereotipi che lo vedono più come il “provider” che come il “caregiver”. L’unico piccolo segnale in controtendenza è quello dei padri che prendono il congedo facoltativo per seguire i figli nelle scelte scolastiche più avanzate (come la scelta delle scuole superiori o dell’Università). Uno studio dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) del 2021 evidenzia infatti che il 15% dei padri ha preso congedi per partecipare attivamente a decisioni educative dei figli, come la scelta della scuola superiore o dell’università. Questo indica un inizio di assunzione di ruoli educativi da parte dei padri, specialmente in fasi in cui le esigenze di “orientamento e supporto” dei figli aumentano.
Il cambiamento parte dalla cultura
Questi dati suggeriscono una lenta ma progressiva evoluzione nel coinvolgimento paterno, con i padri che iniziano a superare gli stereotipi tradizionali e a partecipare più attivamente alla vita educativa dei figli. È un fenomeno piccolissimo, ma interessante da osservare perché inserisce il padre come figura educativa di riferimento in un momento della vita dei figli in cui le esigenze di “accudimento” calano, e aumentano quelle di “orientamento e supporto”. Il cambiamento parte dalla cultura, non dalla normativa
Non si risolve il work-life balance
Estendere o equiparare i congedi di paternità a quelli di maternità può essere un passo simbolico, ma non è la soluzione al problema del work-life balance. Il cambiamento reale deve partire da una trasformazione culturale che veda i padri come protagonisti della cura dei figli e che riconosca che il lavoro di cura non è prerogativa femminile. Solo allora vedremo un vero equilibrio tra vita lavorativa e familiare, per mamme e papà.