mercoledì, Luglio 9, 2025
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Cena dell’Amicizia dove si ricomincia

Ogni martedì, da sessant’anni, la Cena dell’Amicizia accende una speranza. Marco Petrelli è il Presidente dell’associazione che restituisce dignità a chi ha perso tutto «Ogni persona, anche la più fragile, può rinascere se trova qualcuno che le tende la mano»

A Milano, ogni martedì da quasi 60 anni, c’è una tavola che accoglie chi vive ai margini, chi ha perso tutto: casa, lavoro, relazioni. È la Cena dell’Amicizia, un’associazione che non offre solo pasti, ma un percorso per ricostruire una vita. Ne parliamo con Marco Petrelli, presidente dell’associazione, che con voce appassionata ci racconta cosa significa davvero stare accanto a chi è invisibile.

Presidente Petrelli, come è iniziato il suo cammino con Cena dell’Amicizia?

«La mia storia con Cena dell’Amicizia parte da lontano, negli anni ’90, quando ero un semplice volontario. Da allora non me ne sono più andato. Sono diventato membro del Consiglio Direttivo nel 2018 e, dal 2023, ho l’onore di esserne il presidente. È un percorso che ti cambia, ti costringe a guardare in faccia le persone e le loro fragilità, ma soprattutto a scoprire quanta forza si può ritrovare insieme.»

Qual è la mission dell’associazione?

«Il nostro obiettivo è semplice, ma profondo: stare accanto a chi vive nella povertà e nell’emarginazione. Non ci limitiamo a fornire un pasto caldo, ma creiamo veri e propri progetti di accoglienza. Ci sono le Cene del martedì, ma anche i centri e gli appartamenti protetti dove le persone possono riprendere in mano la propria vita. E poi c’è la Vacanza dell’Amicizia: due settimane lontani dalla strada, dove volontari, ospiti e operatori vivono insieme, alla pari. Sono momenti preziosi dove si riscopre il senso di appartenenza.»

Chi sono le persone che incontrate ogni giorno?

«Sono persone senza dimora, ma dire così è riduttivo. Dietro ci sono storie complesse: povertà, dipendenze, traumi, carcere, malattie mentali. È la somma di queste fragilità che crea isolamento e solitudine. Le persone che arrivano da noi non hanno solo bisogno di una casa: hanno bisogno di essere ascoltate, riconosciute e aiutate a ricostruire una quotidianità.»

Come costruite un percorso di rinascita per loro?

«Non è mai un intervento standard. Ogni progetto è personalizzato. Iniziamo con colloqui approfonditi per conoscere la persona e per fare rete con i servizi sociali e sanitari. Li aiutiamo a riprendere piccole abitudini: rifare i documenti, curare l’igiene personale, gestire le proprie risorse economiche. Lavoriamo molto sul riattivare le relazioni, perché la strada le atrofizza. E la presenza quotidiana dei volontari è spesso lo stimolo più efficace per farli tornare a credere in sé stessi.»

Quante persone avete aiutato in questi anni?

«Dal 1988, anno in cui abbiamo aperto il nostro centro di accoglienza alla Comasina, abbiamo seguito oltre mille persone nei nostri percorsi residenziali. E ogni martedì, da quasi sessant’anni, accogliamo almeno 35 ospiti alla nostra Cena. Non siamo una realtà che lavora sui grandi numeri, ma per noi ogni persona è una storia che merita attenzione.»

C’è un ricordo che le è rimasto nel cuore?

«Ce ne sono tanti. Ogni volta che un nostro ospite torna a trovarci, anche dopo anni, e ci racconta che sta bene, che ha trovato una casa o un lavoro, è una gioia immensa. È la prova che il percorso fatto insieme ha lasciato un segno. Questo è il nostro traguardo: che le persone non tornino più alla vita di strada.»

Chi vi sostiene in questo lavoro quotidiano?

«Siamo sostenuti da qualche convenzione con il Comune di Milano, ma soprattutto da tanti amici, donatori e dalle raccolte fondi che organizziamo. È una battaglia continua, ma la generosità di chi ci affianca non ci ha mai lasciato soli».

La più grande soddisfazione? E la più grande delusione?

«La soddisfazione? Vedere una famiglia che si riunisce, un lavoro trovato, una carta d’identità finalmente ottenuta. Sono piccole cose per molti, ma giganti per chi ha perso tutto. Delusioni? Ce ne sono, quando qualcuno abbandona il percorso o si smarrisce di nuovo. Ma non smettiamo mai di credere nella possibilità di un cambiamento».

Se dovesse racchiudere tutto in una frase, qual è “il bello che c’è” nella vostra esperienza?

«Il bello che c’è è nella solidarietà vera, nell’ascolto, nel rispetto per tutti. Nella certezza che ogni persona, anche la più fragile, può rinascere se trova qualcuno che le tende la mano».

Federica Bosco
Federica Bosco
Direttore Responsabile di QuotidianodellaSalute.it. Giornalista professionista, con una lunga esperienza nella comunicazione scientifica, sanitaria e nel sociale. “Parlare è un bisogno, ascoltare un’arte” diceva Goethe e forte di questo pensiero a poco più di 20 anni durante gli studi universitari ho iniziato a maturare esperienza in alcune trasmissioni televisive per raccontare lo sport, andando a cercare storie di promesse e futuri campioni. Completati gli studi al master di giornalismo e pubbliche relazioni di Torino, ho iniziato a collaborare con il quotidiano “Stampa Sera”, per diventare qualche anno più tardi inviata per la testata giornalistica Video News, del gruppo Fininvest. Dal 1998 mi occupo di giornalismo di inchiesta. Tra il 2013 ed il 2015 ho condotto una trasmissione televisiva per Media system dedicata al terzo settore per poi virare nella comunicazione sanitaria e scientifica. Amo le sfide e per questo in trent’anni di carriera non mi sono mai fermata. Ho cercato sempre nuove avventure: televisive, radiofoniche, su carta stampata e, negli ultimi dieci anni sul digitale. Nel frattempo, ho pubblicato tre libri inchiesta: La Bambina di Bogotà (2015) tradotto anche in inglese, Sbirri Maledetti eroi (2019) tradotto in francese, tedesco e inglese e RaccontaMI (2021). Apprezzo la gentilezza e la sensibilità, valori che provo a trasmettere anche nel mio lavoro. Professionalità, precisione e rigore sono caratteristiche che mi contraddistinguono. Ho scritto un romanzo su una storia di adozione internazionale perché credo che l’amore non abbia confini... e i bambini siano il bene più prezioso della vita. Amo i miei figli. Adoro viaggiare e scoprire volti e storie da raccontare. Ho fatto atletica per dieci anni a livello agonistico, amo lo sprint, la competizione e il gioco di squadra tre valori che mi ha trasmesso lo sport e che ho fatto miei. Vorrei riuscire a guidare una squadra vincente in grado di scalare una montagna e una volta arrivata in cima capace di pensare di essere solo a metà del percorso.
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