domenica, Febbraio 9, 2025
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Case di comunità: a che punto siamo?

Case di comunità: ci sono regioni virtuose, altre meno. Paola Gobbi, dirigente infermieristico: «Le risorse ci sono, manca la cultura e in alcuni casi l’organizzazione»

Sono trascorsi poco meno di due anni dall’avvia delle prime Case di comunità e le opinioni in merito alla funzionalità delle stesse sono contrastanti. Se sulla carta, infatti, avrebbero dovuto  favorire l’accesso ai servizi di prossimità e la presa in carico globale della persona, in realtà oggi non in tutte le regioni l’obiettivo è stato raggiunto.

Case di comunità lo studio dell’Istituto Mario Negri

Per comprendere lo stato dell’arte, il dipartimento di politiche per la salute dell’Istituto Mario Negri ha realizzato un lavoro  di analisi dei modelli organizzativi delle case di comunità, focalizzando l’attenzione in particolare sulla Lombardia, regione che ha sempre avuto una sanità eccellente. Secondo quanto previsti dal PNRR, “il nuovo  modello di organizzazione dell’assistenza territoriale dovrebbe fornire risposte efficaci alla necessità di costruire una rete di assistenza alterativa alle strutture ospedaliere, rimodulando le prestazioni e i servizi offerti in modo da essere il più vicino possibile al cittadino, fino a raggiungerlo a domicilio”. A che punto siamo oggi?  Delle 195 case di comunità previste entro il 2026 secondo il Piano Operativo Regionale approvato con delibera 2562 del 17 giugno 2024, ad oggi sono funzionanti 132 case di comunità.

Cosa c’è e cosa manca

L’indagine ha permesso di fotografare la situazione di 105 case di comunità di cui 91 Hub (ovvero struttura dotata di servizi più complessi e specializzati), 14 Spoke (strutture periferiche o secondarie per servizi di base e primo livello. Ne è emerso un quadro del tutto eterogeneo sotto tre punti di vista: organizzazione, qualità dei servizi e risorse umane. «Alcune strutture hanno già una discreta capacità  di rispondere ai bisogni dei cittadini, altre sono in una fase iniziale», evidenziano al Mario Negri.

Paola Gobbi dirigente infermiere

Dalle case di salute alle case di comunità il modello Emilia-Romagna

Tra le più regioni più virtuose c’è l’Emilia-Romagna  per un passato già collaudato con le case della salute. « l’Emilia-Romagna già formata con le case della salute ha fatto poca fatica a trasformarle in case di comunità così come la Toscana, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino – spiega a quotidianodellasalute.it Paola Gobbi, dirigente infermiere -.  Altre regioni, tra cui la Lombardia che vanta una sanità eccellente per acuti, presenta invece delle lacune nell’assistenza territoriale».

Lombardia eccellente nella sanità, ancora indietro nelle case di comunità

«La Lombardia  ha sempre finanziato reparti per acuti, è diventata una eccellenza a livello europeo e mondiale nei trapianti, nella cardiochirurgia, nella neurochirurgia ed ha specialità diffuse che attirano pazienti anche da altre regioni. Ma ha sempre lasciato invece ai medici di medicina generale e al pronto soccorso la gestione del territorio – analizza Gobbi -.  Ha poi contato su una competizione tra pubblico e privato e chiuso un occhio sul fatto che i cittadini potessero ricevere prestazioni diagnostiche dal privato, anche pagandole in parte o totalmente  per accedervi in tempi brevi quando il Sistema Sanitario Nazionale non era in grado di garantirle. Questo è uno dei motivi per cui  le case di comunità sono nate solo a seguito della Delibera 6760 del 25 luglio 2022 e siano ancora in una fase embrionale».

Perché non tutto funziona

Tra le criticità riscontrate nel rapporto del Mario Negri,  una delle più evidenti riguarda le differenze riscontrate tra le diverse Case di Comunità . I motivi? «Innanzitutto, le peculiarità territoriali, ovvero la realizzazione delle struttura a partire da servizi già esistenti che sono  diversi nei territori per risorse e organizzazione – si legge nella relazione del Mario Negri -. I tempi stretti per  un’adeguata programmazione a livello locale; la coesistenza di visioni diverse nell’applicazione delle linee guida previste a livello nazionale e regionale. Ma soprattutto il  progetto è stato avviato in un momento di difficoltà per il Servizio Sanitario Nazionale caratterizzato da una rilevante riduzione del personale, soprattutto a livello territoriale». Per cercare di ridurre il gap e rendere più funzionale il sistema, è stata sottolineata l’importanza di un maggiore coinvolgimento dei Comuni, delle associazioni, di cittadinanza attiva e del terzo settore nell’organizzazione e nel monitoraggio delle case di comunità.

Il ruolo dell’infermiere di famiglia e comunità IFeC

Ad avere un ruolo primario nelle case di comunità sono gli infermieri di famiglia e comunità (IFeC), impegnati  ad assicurare l’assistenza infermieristica in diversi ambiti di complessità, interagire con gli attori e le risorse presenti nella comunità e rispondere ai bisogni attuali e potenziali.

L’infermiere di famiglia e di comunità ha il compito di

  • intercettare il bisogno di salute dei cittadini, agendo su promozione, prevenzione e gestione della salute in tutte le fasce di età
  • promuovere il coinvolgimento attivo della comunità attraverso momenti di educazione sanitaria in presenza o da remoto in collaborazione con medici di medicina generale, specialisti, psicologi, insegnanti di scuola.
  • promuovere attività di informazione e comunicazione e di counseling per la promozione di comportamenti positivi al fine di favorire una corretta educazione sanitaria.
  • Sostenere persone disabili e caregiver
  • Lavorare con associazioni di volontariato per la realizzazione dei progetti
  • Utilizzare strumenti digitali, telemedicina e teleassistenza

Il nodo cruciale

«Il ruolo degli IFEC infermieri di famiglia e di comunità è fondamentale  – prosegue Paola Gobbi -. Sono il raccordo tra  medici di medicina generale e pazienti, erogano prestazioni in accordo con ADI,  monitorano i pazienti con patologie croniche che rappresentano il 30/40 percento della popolazione italiana, li seguono nella prenotazione degli esami diagnostici, valutano l’aderenza terapeutica, informare e formare i caregiver, e quindi tengono insieme i nodi della rete socioassistenziale e territoriale».

Le risorse ci sono, serve più organizzazione

Il DM 77 ha destinato molte risorse agli infermieri di famiglia e agli assistenti sociali. «In Lombardia manca ancora la mentalità, l’idea di lavorare in équipe con un sistema di studi associati o di  cooperative – aggiunge la dirigente  -. Oggi le risorse ci sono, la carenza di infermieri pur essendo cronica non ha tanto inciso sulle case di comunità, perché i professionisti sono arrivati, ma occorre capire come gestirli al meglio. Manca una organizzazione efficiente. Quindi i ritardi nello sviluppo delle case di comunità non dipendono tanto dalla carenza di professionisti, quanto più dalla incapacità di capire il ruolo delle case di comunità sul territorio».

I modelli virtuosi sul territorio e oltre confine

Esempi virtuosi di case di comunità sono presenti in Italia. Se l’Emilia-Romagna con le case della salute ha fatto scuola, altre regioni negli ultimi anni si sono distinte per capacità di creare e organizzare le case di comunità. Tra queste Toscana, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige.  «Anche in Piemonte, in Liguria e in Lombardia,  in particolare nelle aree montane, oggi sono state realizzate case di comunità con i fondi dell’Unione Europea destinati ad incentivare la presenza di infermieri di comunità nelle aree scarsamente raggiungibili dai medici di medicina generale – puntualizza Paola Gobbi -. Un modello già sperimentato con successo anche all’estero. In particolare, ricordo la Spagna e il Canada dove, già nel 2012, nella zona dell’Ontario sono stati destinati 5000 infermieri finanziati con borse di studio di formazione avanzata per portare assistenza sanitaria nelle zone più impervie del Paese».

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