Le aggressioni ai danni di medici e infermieri accaduta nei giorni scorsi a Foggia è solo l’ultimo episodio di una lunga escalation di violenza che interessa il personale medico e gli operatori sanitari costretti, ogni giorno, a vivere in trincea.
Quotidiano della Salute ha raccolto la testimonianza di un medico che nell’arco della sua carriera è stato vittima di più aggressioni.
Essere medico del 118 a Napoli
Lui è Manuel Ruggiero (nella foto), oggi dirigente medico del 118 presso l’Asl Napoli 2. Nella sua carriera nell’emergenza urgenza del capoluogo campano, ha subito diverse aggressioni. L’ultima un anno e mezzo fa. «Quanto accaduto a Foggia è nulla rispetto a ciò che siamo costretti a subire in Campania. Qui le aggressioni fisiche sono all’ordine del giorno, anche con la pistola. A volte ho l’impressione di vivere nel Far West», ammette il dottor Ruggiero, mentre la mente corre all’ultima aggressione subita per mano di un paziente. «Con il mio equipaggio del 118 siamo stati aggrediti da un utente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Nel tentativo di immobilizzarlo per prestare le cure del caso, l’uomo ha tentato di tagliarci la gola con una scheggia di vetro. Non è arrivato a compiere l’atto solo perché sono intervenute le forze dell’ordine».
Per 118 e Pronto Soccorso le aggressioni sono all’ordine del giorno
Secondo le statistiche la maggior parte delle aggressioni avviene proprio nei confronti di operatori del 118 e a medici e infermieri del pronto soccorso. Un dato che per Ruggiero è imputabile ad una gestione non corretta dei pazienti. «Se il cittadino di fronte ad un problema di salute si rivolgesse al suo medico di medicina generale anziché andare al pronto soccorso dell’ospedale più vicino, tante aggressioni si eviterebbero – fa notare Ruggiero – Quando il sistema si intasa, le ore di attesa aumentano. Cosa significa questo? Che le persone tranquille manifestano il proprio disappunto, i più facinorosi aggrediscono. Purtroppo, noi viviamo il fallimento del sistema sanitario in prima persona perché siamo il front office e ne paghiamo le conseguenze».
Tornare al lavoro dopo un’aggressione: c’è chi rischia il burnout
Conseguenze che si ripercuotono anche sul lavoro, la tranquillità viene meno e lo stress accompagna medici e operatori sanitari per giorni, a volte per anni. «Riprendere il lavoro dopo un aggressione non è facile. Personalmente sono sempre tornato al lavoro il giorno dopo – racconta –. Anche se oggi quando vedo un clima teso faccio un passo indietro e non due avanti come accadeva prima. Ho visto però colleghi provati, che hanno dovuto cambiare lavoro per effetto del burnout».
L’associazione “Nessuno tocchi Ippocrate” offre assistenza legale a medici e infermieri aggrediti
Fare un passo indietro nelle situazioni di tensione, ma uno avanti per aiutare i colleghi, questo il mantra del dottor Ruggiero che nel 2017, quando era medico della centrale operativa all’Ospedale Cardarelli di Napoli, ha dato vita all’associazione “Nessuno tocchi Ippocrate”. «Quando mi trovai ad essere spettatore di un’aggressione fisica ai danni di un collega che con il volto insanguinato si rifugiò nel mio ufficio, decisi di fare qualcosa. Siccome il percorso di giustizia è molto lungo e fino ad oggi le istituzioni hanno fatto poco per mettere in sicurezza medici e operatori sanitari, ho deciso di denunciare pubblicamente le aggressioni con una campagna mediatica sui social. Devo dire che negli anni abbiamo ottenuto una certa visibilità». Ventitré mila follower su Tiktok, 57.000 su Facebook sono i numeri raggiunti dall’associazione “Nessuno Tocchi Ippocrate” che offre a medici e infermieri tutela legale.
Forze di Polizia in Pronto Soccorso per ridurre le aggressioni
«Le aziende ospedaliere dovrebbero farsi carico del sostegno psicologico dei medici aggrediti, ma non sempre ciò accade», lamenta il Presidente di “Nessuno tocchi Ippocrate” che prova a suggerire anche qualche rimedio. «Il daspo sanitario proposto dal Governo alimenterebbe solo rabbia e senso di rivalsa di chi, costretto a pagare le prestazioni sanitarie per tre anni, in PS avrebbe la presunzione di volere attenzioni subito. Piuttosto servirebbe un numero unico per gestire l’emergenza e urgenza e la continuità assistenziale. In questo modo si eviterebbero tanti accessi al PS inutili. Inoltre, sarebbe opportuna la presenza di drappelli di polizia in tutti i Pronto Soccorso. Avrebbero una funzione di deterrente – spiega – .Una iniziativa di questo tipo è stata fatta dal Ministro Matteo Piantedosi in passato, con buoni risultati. Purtroppo, non in tutti gli ospedali è stata attivata la sperimentazione e si è creata una situazione di medici di serie A e serie B. Ora vige un protocollo per cui all’atto dell’aggressione noi medici non siamo tenuti ad intervenire se la scena non è sicura. Cosa significa questo? Che i famigliari dovrebbero sapere che ogni momento di tensione corrisponde a minuti persi per salvare la vita del congiunto».